Youssef è in Italia da due anni e quattro mesi. Parla bene l’italiano ma per raccontare la sua storia preferisce usare il francese. È fuggito dalla Costa d’Avorio dopo che la sua ragazza è morta durante l’aborto. La famiglia della donna, musulmana, non avrebbe accettato la gravidanza. Così, appena scopre quanto successo, Youssef scappa e finisce nelle prigioni libiche. La sua salvezza è l’incontro con un connazionale che gli presta i soldi per il viaggio. “Non volevo venire in Italia. Poi il mio connazionale ha trovato i soldi e mi ha proposto di partire”. “In mia vita mai, mai, mai ho sognato di venire in Europa. Ora penso che sia una parte del mio destino”, aggiunge Ali Kassim. L’Italia, però, è il Paese a cui ora sono legati dal fotosegnalamento. Entrambi vivono, insieme ad altri 81 uomini, sulla collina di Superga, in attesa del responso del Tribunale sulla richiesta di protezione internazionale.
I due Cas (Centri di accoglienza straordinaria) che li ospitano fanno parte della Città dei ragazzi, un complesso di palazzine sparse nei boschi a cinque chilometri da Torino, dove nel dopoguerra dormivano orfani e indigenti. I cartelli scoloriti indicano il primo edificio, Villa Rossi, ma diventano illeggibili al bivio successivo. Un ragazzo che cammina lungo la strada si avvicina: con un italiano ancora approssimato spiega che bisogna compiere un mezzo giro salendo e indica la direzione di Villa Fede. L’edificio è avvolto nel silenzio, e da fuori gli unici segni di vita sono i panni stesi: sui fili, sulla siepe, alle finestre. Solo uomini, fra i 20 e i 35 anni, vivono qui in attesa che la Commissione territoriale
accetti o respinga la loro richiesta di protezione internazionale: 36 dormono a Villa Rossi, 47 a Villa Fede. Il 48esimo se n’è andato da pochi giorni dopo aver ricevuto il secondo diniego: non ha più diritto all’ospitalità nel centro né al possesso di documenti.
Nel Centro, una tabella attaccata alla porta della cucina indica i turni: nella preparazione dei pasti i gruppi anglofono e francofono si mantengono divisi. “Abbiamo provato a mescolare ma è difficile: le usanze sono diverse, i sapori non sono comparabili” afferma Alessia Cannone, giovane operatrice del centro. “Così è più semplice”. Nel frattempo, in cucina, si è rotto il lavandino e il pavimento è coperto di acqua e sapone. Alcuni ragazzi stanno cercando di risolvere il problema, per poter ricominciare a cucinare. La maggior parte di loro è musulmana e osserva il Ramadan, iniziato da pochi giorni. Dal sorgere del sole fino al tramonto non si mangia e beve nulla e i pasti si spostano nella notte, il principale alle tre. La libertà all’interno della struttura, però, ha molte regole a cui attenersi: “Per chi osserva il digiuno vengono preparati dei pranzi al sacco – spiega l’operatrice – ma la cucina non viene aperta al di fuori degli orari stabiliti”. Nessuna eccezione: si pranza tra le 12 e le 14.30 e si cena tra le 18 e le 20.
Nella stanza principale del Centro, alcuni ragazzi siedono sul divano, guardano la tv, ascoltano la musica e poi tornano nelle loro stanze. “Mi avevano chiamato per un posto di lavoro in cucina, ma quando hanno saputo che non avevo i documenti non ho potuto – racconta ancora Youssef – Allora sto aspettando i documenti, perchè so di avere possibilità qui, io. Non tutti, ma io sì, perché conosco tante persone e ho molti amici”. Quando arriva il primo rifiuto alla richiesta d’asilo, tuttavia, le opportunità spesso calano drasticamente. “I datori non sono incentivati a investire su ragazzi che, nella maggior parte dei casi, diventeranno irregolari da lì a qualche mese” spiega il responsabile di gestione Alessandro Richard.
Tuttavia, il Centro punta alla loro formazione: “Quattro volte a settimana i ragazzi vanno in città per le lezioni di italiano” spiega Luca Scumaci, operatore del Cas. “Lo scopo principale è far prendere loro la terza media per iscriverli poi ai corsi professionali”. “Per forza dobbiamo studiare, per integrarci. L’italiano è una lingua che mi piace però è un po’ difficile”, commenta Ali Kassim. “Se non conosci la lingua non puoi lavorare” aggiunge Mohamed, partito dal Gambia otto mesi fa e da sei in Italia. Per spiegarsi preferisce ancora l’inglese. Oltre alla scuola ci sono le domeniche in cui si è giocato il torneo calcistico di Football Communities, conclusosi questo weekend. “L’altra attività fisica è la strada da percorrere a piedi per arrivare alla fermata dell’autobus più vicina al Centro” sorride Alessia. Un percorso che, tuttavia, può creare problemi: “L’anno scorso abbiamo chiamato l’elicottero perché un ragazzo si è sentito male e nessuna auto poteva arrivare fin qui, la neve rendeva la salita impraticabile”.
Quasi tutti i ragazzi raccontano della Libia, il denominatore comune nei loro viaggi. Kingsley, nigeriano, nel Paese ha lavorato quattro anni, prima di imbarcarsi. È sempre Youssef a spiegare quello che, in molti casi, succede superando il confine: “Appena arrivi vieni preso, messo in prigione, e ti rubano tutto. Per pagare la cauzione, ogni giorno devi lavorare, sperando, prima o poi, di uscire”. Torture e abusi sono frequenti. Un ragazzo ospitato nel centro, racconta Alessia, probabilmente ha subito violenze ma ancora non ne parla. Se non sarà lui a richiederlo, però, non avrà supporto psicologico. Perché “dev’essere una sua volontà, come essere umani devono mantenere la libertà di scelta” sostiene Alessia.
Oltre a lei e Luca Scumaci, altri due operatori e due mediatori culturali si danno il cambio per gestire i due centri, il cui responsabile di gestione si vede raramente. È lui ad accompagnare i ragazzi la prima volta al Centro e a spiegare loro quali saranno i passaggi successivi. “Per chi non parla inglese o francese sono gli altri richiedenti asilo a fare da interpreti” aggiunge Alessia. “Youssef si sta formando come mediatore”. Nel frattempo gli è stata affidata, insieme a un altro ragazzo ospite, la custodia notturna del centro. La sera le porte si chiudono e tutti devono essere presenti. Di notte non sono ammessi ospiti, e nessun operatore si ferma.
“Io mi sto preparando per andare in Francia” dice Kingsley sottovoce, una montatura d’oro finta intorno agli occhi, dal divano rosso del salotto “qui non c’è lavoro, non c’è permesso, non ci sono documenti: non c’è niente”.