La storia del campione Arthur Ashe ricorda il viaggio degli eroi omerici: nonostante gli innumerevoli imprevisti del percorso, il protagonista riesce a mantenere la fedeltà ai propri principi, al proprio modo di essere. Il tema della reputazione, decisiva per avere un’immagine coerente alla personalità, è sempre stata una prerogativa per Ashe: dopo aver battuto in finale a Wimbledon Jimmy Connors, ha esultato pacatamente, composto, senza sdraiarsi sul prato verde come avrebbe fatto chiunque altro. Prima il saluto all’avversario, poi quello al pubblico. Come se fosse una vittoria normale, come tutte le altre.
Non era come tutti gli altri Arthur Ashe, e lo si evince dalla sua biografia “La mia Storia-Giorni di Grazia“, edita da Addeditore e presentata nella Sala Argento del Salone del Libro di Torino da un appassionato di sport come Mauro Berruto e dal professore Giuseppe Vercelli. La storia di un grande campione dentro e fuori dal campo, capace di trasformare il virus dell’Hiv contratto nel 1988 in una forza, in una crescita personale. Il conto alla rovescia fino alla morte il 6 febbraio del 1993 diventa un’intensa lotta per la difesa dei diritti civili (storiche le sue battaglie anti apartheid in Sudafrica a fianco di Mandela) e un lavoro di trasmissione dei valori patriottici ai giovani tennisti da capitano della Davis.
Un libro che è insieme un testamento struggente e vitale, un inno alla libertà, un manuale sull’anti-fragilità e su come un uomo può reagire in maniera straordinaria di fronte ai più grandi imprevisti della vita”, un racconto degli anni d’oro del tennis con alcuni aneddoti memorabili. Tra cui la vittoria in Coppa Davis da “primo capitano nero” della nazionale statunitense, in un match inutile ai fini del risultati, contro il non imbattibile Orlando Bracamonte del Venezuela. “L’emozione di sentire game, set and match USA non la scorderò mai”. Non uno come tutti gli altri.
EMANUELE GRANELLI