“Uno degli obiettivi futuri del fact-checking è renderlo cool e mainstream. Credo che l’unica via per farcela sia pensare a un nuovo formato di presentazione delle analisi dei fatti, anche sfruttando la viralità dei social network”. Le parole di Giovanni Zagni, membro dello staff di Pagella Politica, sono indicative di una nuova prospettiva da cui inquadrare il fact-checking, uno degli argomenti più trattati del Festival del Giornalismo di Perugia. In particolare, venerdì 7 aprile se ne è parlato nel panel Fact-checking nell’era di Trump.
Non solo prospettive future. L’incontro è infatti iniziato con una panoramica storica del fact-checking negli Stati Uniti, dove “la verifica dei fatti è iniziata durante la guerra del Vietnam e ha avuto una crescita negli anni Ottanta, sotto la presidenza Reagan. Alcuni giornalisti, infatti, avevano cominciato a contrastare con i ‘riquadri della verità’ le dichiarazioni del Presidente a riguardo del livello di occupazione, crescita del Pil e altri dati”, ha spiegato Lucas Graves, docente della Scuola di giornalismo dell’Università del Wisconsin. “Internet ha cambiato tutto, perché ha aiutato la nascita e la crescita in tutta Europa di organizzazioni totalmente dedicate al tema”, ha continuato il professore spostando il focus sul Vecchio Continente, “ma anche col web si è ripetuta una delle reazioni classiche al fact-checking, ovverosia quella del politico che lo accetta solo fin quando non danneggia la sua reputazione”.
Si è parlato poi di casi specifici che hanno caratterizzato il 2016: l’elezione di Trump, ma anche Brexit. Su quest’ultimo argomento, Phoebe Arnold, membro di Full Fact, ha spiegato che la sua organizzazione “si è concentrata sulle spiegazioni dei temi e non sulle dichiarazioni dei politici, perché pochi cittadini inglesi conoscevano le basi di quello su cui stavano per votare. Come sempre, non abbiamo preteso di imporre loro cosa pensare, ma abbiamo cercato di dare gli strumenti per capire cosa è vero e cosa è falso”.