«La Link Tax mi sembra una follia». Risponde così Carlo Blengino, avvocato penalista in tema di nuove tecnologie e fellow di Nexa Center for Internet & Society, a proposito della riforma del copyright in discussione al Parlamento Europeo. Un progetto sostenuto dal tedesco Gunther Oettingher, ex Commissario europeo per l’economia e la società digitale.
Che cos’è questa Link Tax?
L’articolo 11 della riforma prevede il diritto, da parte degli editori, di farsi pagare da chi linka i propri contenuti utilizzando uno snippet, cioè un’estratto di 15-20 parole dell’articolo. Detto in maniera semplice, i motori di ricerca dovrebbero pagare gli editori per poterne indicizzare, cioè elencare nella pagina di risultati di ricerca, gli articoli.
Da quando se ne parla?
Se ne parla da luglio 2015, anche se soltanto la scorsa primavera la Commissione Europea ha lanciato una consultazione pubblica. Secondo Blengino «l’idea era che ci sarebbero stati soprattutto interlocutori interessati a dare l’assenso, ma così non è andata». C’è stata forte opposizione degli attivisti di Internet contrari alla Tax, come ad esempio la campagna Save The Link.
Perché c’è polemica?
Perché il meccanismo non riguarda soltanto l’aspetto economico. Secondo Blengino, «nel farlo si tenta di monetizzare una delle attività genetiche del web, l’ipertesto. È una strada che si vorrebbe percorrere non avendo il coraggio di applicare una politica fiscale di tassazione che dovrebbe essere affrontata a livello europeo, ma che invece ogni Paese affronta per conto proprio. Si cerca di sfruttare il copyright per creare privilegi industriali e commerciali: la Link Tax sarebbe una tassazione incompatibile e improduttiva, contraria alla finalità del web che si basa proprio sui link».
Quali effetti potrebbe avere?
Il timore è che possa verificarsi quanto già successo in Spagna e Germania, dove gli editori hanno il diritto di farsi pagare da Google News. Il risultato è stato un crollo di traffico sui siti degli editori. Blengino: «La Link Tax avrebbe come effetto quello di deprimere la circolazione dei contenuti di cui beneficiano editori e autori stessi. È una stupidaggine. La finalità di ogni editore è che le opere vengano lette da più persone possibile, anche via web, perché questo genera traffico e introiti. Sul web il meccanismo funziona via link: bisogna prenderne atto e trovare il modo di monetizzare in altro modo».
E allora come si potrebbe fare?
«Essendo una questione di mercato, le posizioni di forza vanno trovate con degli accordi come ha fatto Google con editori francesi e in parte con quelli italiani.
Il copyright nasceva a tutela di ingegno e creatività. Non è sensato pensare di usarlo come grimaldello per scardinare un mercato che si è evoluto in maniera innovativa negli ultimi 15 anni».
Da che parte stanno gli editori italiani?
«Sono incerti perché il web ha stravolto meccanismi consolidati, mettendoli in difficoltà. Molti continuano a credere che si stesse meglio quando non c’era internet. Si tenta di riportare indietro la lancetta e mantenere esclusività che oggi non ha più senso. Gli editori italiani, tra quelli europei, non mi sembrano comunque i più favorevoli».
Come andrà a finire la Link Tax?
«Non credo che passerà , ma forse sono soltanto ottimista. Se dovesse essere approvata, frammenteremo il mercato e continueremo a favorire i grandi provider americani a scapito di quelli europei».
Esiste ancora la proprietà intellettuale nell’era di Internet?
«Sì, continua a essere fondamentale ma deve essere riconsiderata. Intesa come diritto morale del creatore è qualcosa a cui purtroppo, in Italia, non si presta più attenzione. Non c’è grande editore, da noi, che abbia la decenza di chiedere l’autorizzazione per mettere foto prese da social network. Nei paesi anglofoni si lavora in maniera diversa. Il senso del diritto d’autore che hanno gli editori italiani è zero, è una modalità per guadagnare a danno degli autori. Quello che non va nella proprietà intellettuale, e in particolare nel diritto d’autore, è che ci guadagnano imprese invece degli autori».