La provincia di Restare è uno stato d’animo che sopravvive a ogni forma di distacco, nel bene e nel male, tra senso di appartenenza e rigetto, come la penna di Cesare Pavese, il faro artistico del regista canavesano Fabio Bobbio. Un sentimento che si esprime nei silenzi dei due ventenni protagonisti, in una storia di rara sensibilità. “La provincia è un vecchio amico che ti fa arrabbiare, ma che sei pronto a difendere da ogni giudizio”, sostiene l’autore del cortometraggio “Restare”, scritto a quattro mani con Zelia Zbogar e vincitore del Premio del Pubblico al Glocal film festival di Torino, nella sezione Spazio Piemonte.

Bobbio, Restare parla di una separazione: perché ha scelto un titolo contrario?
Il titolo inglese rende meglio l’idea: “Remains”, ovvero ciò che rimane. Il rapporto tra i due personaggi del corto, Sara e Denis, non svanisce, anche se lei sta per lasciare la provincia, e lo stesso vale per il senso di appartenenza, che abbiamo voluto esplorare attraverso il punto di vista delle nuove generazioni.
Il corto è ambientato in Canavese, ma la provincia raffigurata è universale?
Sì, negli ultimi decenni le province del mondo occidentale hanno conosciuto un processo di spersonalizzazione, di crisi identitaria e hanno finito per assomigliare le une con le altre, con un sentimento condiviso. Nel corto, il contesto rurale, ex-industriale, del Nord Italia dialoga con il cinema d’autore europeo e con l’immaginario indie del Midwest americano, per raccontare la provincia come luogo epico.
A quali registi si è ispirato?
Sicuramente al nuovo cinema rurale americano di Kelly Reichardt, nel mio personale olimpo delle registe contemporanee, mentre tra i punti di riferimento europei c’è ad esempio Olivier Assayas. Un altro film che abbiamo studiato è Bones and all di Luca Guadagnino.
Che ricordo ha della sua partenza dalla provincia?
Ho lasciato Rivarolo Canavese a 24 anni, ho vissuto per un po’ in giro per l’Italia, tra cui a Ferrara per studiare comunicazione audiovisiva, e poi all’estero, prima a Buenos Aires e poi a Barcellona. Restare, come lo era stato nel 2016 il film I cormorani, è un salto nel passato e come tutti i corti d’autore tocca delle corde autobiografiche molto profonde.
Durante gli anni lontano dalla provincia, c’era un autore che la riportava alla sua terra?
Sì, Cesare Pavese. Quando ero a Barcellona, ho riletto tutte le sue opere ed è stato come confrontarsi con un grande amico. Il modo in cui parla del senso di appartenenza e la mitizzazione dei luoghi in cui ha vissuto sono stati e saranno sempre una mia fonte di ispirazione.
A Torino si sente a casa?
Sì, è una città in cui sto bene umanamente e anche sul fronte professionale. Il cinema di Torino ha una comunità coesa che si appoggia e si sostiene ed è molto raro in Italia. C’è uno scambio molto vivo, anche grazie al lavoro che Film Commission ha fatto in questi anni.
Lei nasce come montatore, cosa la affascina del linguaggio cinematografico?
Le quattro pareti dell’inquadratura, che mi permettono di concentrarmi sull’interno che racchiudono e di lasciare all’immaginazione ciò che resta fuori campo. Come montatore, mi appassiona l’idea di frammentare la realtà in tante piccole unità di tempo e poter così agire su di essa. Al Centro sperimentale di cinematografia di Palermo, in cui insegno montaggio, dico sempre che montare è esattamente come l’atto di scrivere: hai una punteggiatura, delle parole, delle lettere e l’obiettivo è creare le frasi più belle possibili.