Gli stereotipi sono, ancora, uno degli ostacoli principali alla partecipazione femminile agli sport. È quanto è emerso oggi, venerdì 14 novembre, durante il convegno “Lo sport al femminile, barriere e opportunità”. Questo vale soprattutto per le discipline tradizionalmente associate alla pratica da parte del genere maschile, come il rugby, soprattutto. “Siamo qui a parlare di sport al femminile, qualcosa è stato fatto ma c’è ancora tanto da fare: parliamo di sport come fondamento dell’inclusione, dell’integrazione ma dobbiamo guardare anche al fattore di genere. Ci sono più aspetti su cui lavorare: il profilo dell’organizzazione sportiva, dell’educazione culturale ma anche della rilevanza mediatica e dei grandi eventi”, ha commentato in apertura Stefano Mossino, presidente del Coni Piemonte.
“Gli stereotipi più frequenti sono che il rugby sia un gioco violento, che sia uno sport per maschi, che fa crescere troppo i muscoli e che tutte le ragazze che giocano a rugby siano omosessuali” spiega Cristina Tonna, coordinatrice dell’attività femminile della Federazione Italiana Rugby. La presenza di condizionamenti culturali, però, prosegue Tonna, tende a manifestarsi solo dopo i 13 anni: “Fino ai 12 anni di età, bambini e bambine giocano insieme. Dall’under 14, c’è la prima squadra solo femminile quindi con distinzione di genere. Un nostro studio mostra come nella fascia di età tra i 10 e 13 anni le bambine e le loro famiglie hanno il minor grado di condizionamento a causa di stereotipi”. Durante l’infanzia infatti, argomenta, c’è la sensazione che “tutti possano fare tutto, perché la forza non è una componente centrale del gioco”.
Se si prende in considerazione, invece che il settore giovanile, la prima squadra di A1 di basket la situazione non migliora. Cinzia Zanotti, Head Coach Geas Basket, ragiona: “Le atlete sono donne, ma quello che c’è intorno è maschile. Ci sono dei passi da gigante da fare, anche nel linguaggio: a me piace parlare non di pallacanestro femminile, ma di pallacanestro al femminile. Cambia la velocità, la verticalità ma la pallacanestro è una sola: cambiano gli attori”. Per le donne, praticare sport ad alti livelli è spesso reso difficile dalla mancanza di contratti professionistici, che rendono impossibile dedicarsi esclusivamente all’attività agonistica: “Amo le atlete che alleno e ho grande stima di loro – prosegue Zanotti – che a differenza degli uomini che fanno sport giocano e studiano allo stesso tempo. Su dieci delle mie giocatrici, 8 o sono laureate o stanno studiando per laurearsi. Mettono lo stesso impegno e tempo degli uomini, ma guadagnano molto di meno se non zero”. E sulla decisione di rifiutare la proposta della Germani Brescia commenta: “Trovo che lavorare in un mondo con questi valori sia impagabile”.
Spinosa anche la questione dei ruoli dirigenziali o di allenatrici delle donne, su cui la pallavolista Yasmina Akari ha dichiarato: “Non credo sia una problematica di preparazione, sono tutte molto competenti. Presumo sia un problema di scelte e di credibilità associata alle donne, probabilmente perché nei piani alti dei club e delle società ci sono uomini. La Fivb – la federazione internazionale di pallavolo – ha messo l’obbligo dal 2026 di avere una donna nello staff tecnico per tutte le manifestazioni internazionali”.
Ai massimi livelli compete anche Massimiliano Canzi, allenatore Juventus Women, che racconta la propria esperienza: “Fra il calcio femminile e quello maschile cambia l’espressione di forza e tutto quello che ne consegue, mentre dal punto di vista organico aerobico non c’è nessuna differenza. Non si dovrebbe guardare il calcio femminile paragonandolo a quello maschile perché non è lo stesso, come capita nello sci o nella pallavolo”.
Lo stereotipo di genere, evidenzia la ricerca di Laura Ruiz e Eugenia Garcia Sottile dell’Università Cattolica di Valencia, si riflette anche nella carenza di contenuti teorici dove la pluralità sia rappresentata: “Le donne sono poco rappresentate nelle immagini e quando lo sono si tratta di donne caucasiche e con una certa conformazione fisica. Per esempio, nella rappresentazione degli sport di combattimento le donne sono adolescenti e gli uomini di età matura. Inoltre, un’analisi sulle immagini di Google Immagini rivela come queste rafforzino lo stereotipo sull’emotività delle donne” ha raccontato Garcia Sottile.
Lo studio delle ricercatrici spagnole dimostra infatti una sovrarappresentazione di donne giovani, magre e con una bellezza tradizionale ipersessualizzata. Ed è per questo che il loro invito è quello a educare lo sguardo a una visione critica e alle possibilità di una rappresentazione diversa, anche attraverso altri mezzi di comunicazione. “Gli stereotipi di genere continuano a essere predominanti: i manuali e i media ancora ci giocano. Per questo è molto importante pensare alla formazione, perché i futuri professori, allenatori e dirigenti sviluppino una formazione critica e rinnovata della partecipazione femminile”.
Sulla necessità, da parte del giornalismo, di prestare attenzione al tema si è espressa anche Mimma Caligaris, giornalista sportiva e coordinatrice della Commissione pari opportunità di Fnsi. “Un’informazione inclusiva e corretta nello sport, con le giuste parole è importante perché lo sport italiano è ancora un sport che ha un’attenzione a volte solo parziale nei confronti delle donne che lo praticano, che lo raccontano e che allenano”, ha dichiarato. Caligaris si è poi soffermata sulla necessità di un cambio di paradigma culturale: “È importante cambiare una mentalità che a volte parte dalla famiglia. Dobbiamo farlo tutti insieme, la scuola ha una funzione veramente importante come ‘antenna’, ma anche di palestra di cambiamento culturale. Si tratta infatti di un cambiamento culturale, che poi si traduce sui campi, nelle palestre e nel racconto sportivo” ha spiegato. Sul tema è dello stesso avviso Canzi, che spiega: “Siamo ancora a molto meno della metà come numero di tesserate rispetto alla Norvegia o alla Germania, che ne ha quattro volte tanto. Qui è un problema culturale: fino a quando ancora una bambina vorrà giocare a calcio e qualcuno le dirà che è uno sport da maschi non andremo da nessuna parte”.
Secondo Cristina Mosso, docente dell’Università degli Studi di Torino, il cambiamento sta avvenendo “ma è lento e deve essere accompagnato da buone pratiche”. Mosso cita una statistica Istat del 2023, secondo cui diminuisce il numero delle persone inattive. Il divario di genere permane soprattutto tra chi pratica sport, pur riducendosi tra gli inattivi, e soprattutto “non tutti gli sport hanno la stessa partecipazione maschile e femminile, come si evince nelle top 10 delle discipline sportive”. La professoressa cita però anche una statistica incoraggiante, quella della percentuale di arbitre: “La più alta in Europa, nonostante altri Paesi si mostrino più vicini alla parità di genere nella pratica sportiva che pure rimane lontana. Solo la Svezia sembra averla raggiunta”.
Al di là dei dati, prosegue Mosso, l’evidenza scientifica conferma che in Italia ancora oggi sono rilevanti gli stereotipi di genere e nello sport soprattutto: “Tradizionalmente, come il mondo militare, è maschile”. E mentre lo sport sembra essere terreno carico di pregiudizi non emergono invece differenze significative tra uomini e donne su stereotipi generali, a esempio sulla moralità. “Questo ci fa pensare alla necessità di insistere con le buone pratiche” ha aggiunto Mosso. “L’effetto degli stereotipi sembra avere un ruolo più robusto negli sport maschili, in quelli femminili meno. Una possibile spiegazione è che lo stereotipo lavori sul carico cognitivo, sulla concentrazione necessaria per approntare la pratica e l’azione. Questo rimanda a un compito importante: riuscire a sensibilizzare le persone all’importanza dello sport come cultura, come opportunità per crescere”. Attraverso lo sport, conclude Mosso, è importante dare attenzione all’individuo, ma anche all’influenza sociale che passa per i messaggi mediatici, le azioni politiche e mediatiche che concorrono a formare l’identità di atleta.