Al momento si ipotizzano i reati di violenza privata, sequestro di persona e violenza sessuale per i tre minorenni – individuati lunedì dai carabinieri coordinati dalla procura dei minori – indagati per il rapimento e le torture ai danni di un coetaneo residente a Moncalieri nella notte di Halloween, tra il 31 ottobre e l’1 novembre. Alla vittima, infatti, sono stati rasati capelli e sopracciglia, ma avrebbe anche subito abusi, filmati con i telefoni cellulari. Per questa ragione, è stato disposto il sequestro dei dispositivi dei tre ragazzi.
I presunti responsabili, di cui almeno uno compagno di scuola del 15enne sequestrato, sono due ragazzi e una ragazza di età compresa tra i 14 e i 16 anni. A loro Emma Avezzù, capo della procura dei minori del Piemonte, sulle pagine di ieri di la Repubblica Torino aveva rivolto un invito: “Se si vogliono presentare spontaneamente assieme ai loro avvocati, sono benvenuti: sanno dove trovarci”.
La prima reazione dei coetanei è stata chiedere vendetta, mentre la madre della vittima ha sostenuto la necessità di interrompere il ciclo di violenza. Richiesta che è stata accolta da molti adolescenti di Moncalieri, che hanno organizzato una manifestazione di solidarietà a cui ha partecipato, con la famiglia, anche il 15enne torturato. Tutti, però, si aspettano giustizia e, in casi come questo, il carcere. Il procedimento penale a carico di minori, tuttavia, prevede che la carcerazione sia misura ultima e residuale, confinata a quei casi in cui la difesa sociale non sia tutelabile se non con la detenzione. Per i minorenni, infatti, l’ordinamento italiano ritiene prevalente l’interesse a educare e responsabilizzare, sia garantendo la continuità educativa sia promuovendo lo sviluppo di competenze autoregolative.
Franco Prina, docente di sociologia giuridica dell’Università degli Studi di Torino, spiega che accadimenti come questo non sono nuovi e che si tratta di “qualche cosa che è riconducibile a una fase trasgressiva di sfida degli adulti, di dimostrazione del proprio essere superiori ad altri e dell’eccitarsi nell’agire in gruppo. Il discorso è ovviamente preoccupante, ma va ricondotto a una dimensione che in molti casi è quella di una fase”.
Ma non solo, perché il modello degli adulti presenti nella vita dei giovanissimi è fondamentale: “I ragazzi nel loro agire, nelle relazioni con gli altri o nel reagire a determinate provocazioni, sono espressione del mondo degli adulti che li circondano. Quanta violenza, quanta prevaricazione ci sono nelle relazioni degli adulti?”.
Forse, aggiunge ancora Prina, la festa di Halloween potrebbe essere interpretata da alcuni come una cornice in cui far confluire questi fenomeni: “Forse c’è un clima, un alone che può essere in parte favorente rispetto a questo modo di spaventare, soprattutto chi si pensa più fragile o verso cui si crede funzioni meglio questa modalità di ‘festeggiare'”.
In questo quadro, prosegue Prina, è fondamentale il compito della giustizia di comprendere – “che non significa giustificare” – chi sono i ragazzi, cosa pensano di sé, in che condizioni relazionali si trovano: qual è il contesto familiare, quale quello scolastico?. “Questo perché il primo compito della giustizia penale minorile è personalizzare la risposta al reato compiuto. Per personalizzare, però, bisogna capire chi è il minorenne che ha compiuto quel reato e le condizioni di vita di cui si diceva prima”. Solo alla fine di questo approfondimento si potrà trovare la risposta migliore al singolo caso, rispetto a cui la giustizia minorile “ha molte carte da giocare”.
La più usata, continua Prina, è l’istituto della messa alla prova, cioè la sospensione del processo e la concessione di un periodo perché il ragazzo – sostenuto dai servizi sociali, dalla scuola, dalla famiglia e dalle associazioni – intraprenda un percorso. “Il percorso della messa alla prova è opposto rispetto a quello del carcere: è un percorso del fare, diverso da quello detentivo del non fare. Al non compiere reati si sostituisce la necessità di fare qualcosa di positivo”.
Le misure sono calibrate sulle singole personalità, sulle circostanze del reato e “possibilmente dovrebbero essere costruttive, cioè che non siano solo un sottrarre, un punire. Punire, in particolare con il carcere, per il futuro dei ragazzi è assolutamente negativo: la letteratura dimostra quanto le istituzioni totali il più delle volte non rieducano ma rafforzano l’identità.” Questo è esattamente, argomenta Prina, quello che va evitato nel caso dei minorenni, che devono “diventare adulti senza essere segnati e soprattutto capire che le istituzioni si sono prese carico di un atto disdicevole che hanno commesso e di cui devono rendere conto, ma con strumenti che intercettino la questione in modo profondo e non, semplicisticamente, con un po’ di botte o una privazione della libertà”. In moltissimi casi, conclude Prina, i reati compiuti da minorenni non vengono ripetuti da adulti, nella misura in cui “si è stati in grado di impedire che quel reato diventasse la cifra dell’identità del minore, sottraendolo ai processi di stigmatizzazione“.