“Nella vetrina centrale dell’esposizione abbiamo un paio di calze bianche, con un inserto rosa alla caviglia, databili ai primi dell’Ottocento che corrispondono esattamente a quelle raffigurate sull’insegna del calzettaio Agostino Baglione, all’ingresso della sala, che si trovava in via Garibaldi a Torino. Questo vuol dire che quel tipo di calze venivano prodotte a Torino, poi ovviamente non possiamo essere sicurissimi che arrivassero da Agostino Baglione”. Così racconta Paola Ruffino, curatrice della mostra “Bianco al femminile” che aprirà i battenti oggi, 27 febbraio, e sarà visitabile fino al 2 febbraio 2026 a Palazzo Madama.

Attraverso selezione di cinquanta manufatti tessili provenienti dalle collezioni di Palazzo Madama, tra cui sei pezzi restaurati appositamente per l’occasione e quattordici esposti per la prima volta, l’esposizione intende offrire a visitatori e visitatrici una panoramica sul mondo dei tessuti, in particolare dei ricami. “Questa mostra, come dice il nome stesso, è dedicata al bianco – continua Ruffino – Non abbiamo i ricami più classici, come quelli in sete colorate, magari con filati dorati o filati metallici, ma abbiamo i ricami eseguiti in filo di lino bianco.” I pezzi della mostra sono esposti nella Sala dei Tessuti in ordine cronologico e spaziano dal Medioevo fino al novecento. “È la sala che storicamente in questo museo è destinata a esporre i tessuti – spiega Ruffino – Qui a Palazzo Madama il secondo piano ha mantenuto la destinazione delle sale data da Vittorio Viale negli anni 30, quando il Museo civico si è trasferito da via Gaudenzio Ferrari a Palazzo Madama”.
Il ricamo, generalmente considerata un’attività femminile, era in realtà eseguito sia da uomini che da donne come dimostrano le prime testimonianze che si hanno a riguardo. “È al Medioevo che risalgono gli statuti di ricamatori più antichi che ci sono rimasti in Europa e sono quelli del 1295 dei ricamatori parigini”, racconta Ruffino. E prosegue: “Nell’elenco dei nomi dei partecipanti sono presenti anche nomi maschili. Ciò dimostra che appunto erano sia donne sia uomini che gestivano queste botteghe di ricamo benché ci fosse una predominanza di nomi femminili”. In particolare “il ricamo effettuato soltanto in lino, bianco su bianco, sia a livello domestico, sia nei conventi, è una specifica femminile” conclude Ruffino.
Ma il ricamo non è sempre rimasto un’attività eseguita all’interno delle mura domestiche o di un convento. E quando ne è uscito si è affermato come forma d’arte e lavoro. Con il suo saggio The Subversive Stitch: embroidery and the making of the feminine la storica dell’arte Rozsika Parker dà conto di questo passaggio del ricamo dalla dimensione privata a quella artistica. Un’arte con le sue tecniche e i suoi linguaggi specifici che ben conoscono Tiziana Assogna e Agata La Spina restauratrici di tessuti che hanno lavorato alla mostra.
“Per i pezzi in esposizione in questa mostra abbiamo fatto un intervento di tipo conservativo. I merletti non sono stati restaurati in questa occasione, ma li ho restaurati io 25 anni fa” dice Tiziana Assogna. “L’abito a sinistra, esposto nella vetrina centrale, aveva diverse parti strappate che ho integrato con sotto del tessuto di seta, filo punto posato” racconta Agata La Spina. “Sotto la manica – continua – aveva proprio un rammendo enorme tutto strappato, anche lì ho tolto tutto quello che era il vecchio, che era proprio mal ridotto, e ho messo un’integrazione anche nella parte della manica”.

“Il restauro dei tessuti è sempre conservativo – spiega Assonga – Non si va a ricostruire la parte che manca ma a consolidare quello che c’è ancor, in maniera che si conservi nel tempo. In alcuni casi si fa integrativo – aggiunge la restauratrice – Per esempio per gli arazzi ci sono diverse correnti di pensiero. Chi vuole il restauro conservativo, quindi dove c’è un buco metti un tessuto neutro, consolidi l’intorno, ma lì resta il buco. E chi invece lo preferisce integrativo vale a dire ritessere la parte mancante seguendo il disegno originale. Questo tipo di intervento si fa prevalentemente per i privati perché non tutti i musei lo accettano”, conclude Assogna.
“Esistono solo tre scuole in Italia che preparano a questo mestiere: il Centro conservazione e restauro “La Venaria Reale” in convenzione con l’Università di Torino, la Scuola di alta formazione e studio dell’Opificio delle pietre dure di Firenze e l’Istituto centrale per il restauro a Roma”, spiega Assogna. “Io ho imparato a bottega, ho avuto questa fortuna – continua la restauratrice – . Da bambina avevo una certa attitudine ai lavori di questo tipo: a sei anni ho imparato a ricamare, a sette ho imparato a lavorare l’uncinetto, a otto ho imparato a lavorare i ferri, mi ha insegnato mia nonna. Poi ho abbandonato tutto, perché nell’adolescenza si rifiuta tutto. Ho ripreso più tardi, intorno ai diciannove anni, e ho scelto la specialità di restauro. E ho ottenuto la qualifica riconosciuta dal Ministero che oggi serve per lavorare in questo settore”.
“Di lavoro ce ne sarebbe molto – spiega La Spina – ma non ci sono tanti soldi, i musei purtroppo non hanno tanti fondi”. “Adesso grazie all’Art bonus, istituito dal ministero della Cultura, il Museo può trovare dei finanziatori che appunto finanziano gli interventi di restauro e che poi possono scaricarsi completamente la spesa nella denuncia dei redditi – interviene Assogna – In questo modo arriva qualche soldo in più perché con i fondi che il museo ha non sempre riesce a far tutto”. L’Art bonus è una forma di mecenatismo che si realizza tramite la disposizione per la tutela del patrimonio culturale introdotta con il decreto legge 83 del 31 maggio 2014 e resa permanente con la legge di stabilità per il 2016. “Inoltre – prosegue Assogna – i lavori di restauro sono possibili anche grazie ai prestiti. Qui a Palazzo Madama vengono prestate molte opere all’estero. Per esempio hanno in programma di mandare a Riga una serie di tessuti. Grazie a questi prestiti si riescono a pagare gli interventi di restauro: invece di farsi pagare il prestito delle opere, il museo chiede il finanziamento del restauro di alcuni pezzi come forma di pagamento”.
“Il nostro è un lavoro manuale, non esistono macchina da cucire per noi, facciamo tutto a mano – aggiunge Assogna. “Bisogna usare dei punti particolari – prosegue La Spiga – come ad esempio il punto posato che è quello che ho usato per intervenire su alcuni pezzi esposti alla mostra: è un punto che si usa molto perché trattiene bene e non è estremamente invasivo”. E conclude: “I tessuti sono veramente misteriosi, ognuno è un mondo a sé, un problema a sé da risolvere. E per il quale noi restauratrici dobbiamo immaginare una soluzione”.
Qualcosa di molto simile lo scrive anche la scrittrice messicana Jazmina Barrera nel suo romanzo Punto croce (La Nuova Frontiera, 2023) che intesse i rapporti di amicizia e di crescita di tre ragazze fra libri e ricamo: “C’è qualcosa nei tessuti. Nel modo in cui si compongono e si ricompongono, si ordinano, si rigenerano, si uniscono e si cuciono. Bisogna cercare le risposte nei tessuti”.