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Povero lavoro. Storie di sfruttamento e precariato

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Secondo le stime preliminari Istat, nel 2023 in Italia vivono in condizione di povertà assoluta circa l’8,5% delle famiglie (+0,2% rispetto al 2022 e +0,8% rispetto al 2021) e 5,7 milioni di individui. Se si considerano poi i dati del 2022 riferiti alla povertà relativa, il numero delle famiglie sale a 2,6 milioni, per un totale di 8,2 milioni di individui. Le stesse tabelle Eurostat mostrano che l’Italia è il Paese dell’Europa occidentale industrializzata con i salari più bassi, con valori del costo medio del lavoro (29,8 euro all’ora) al di sotto della media europea (31,8 euro orari).

In questo contesto, il lavoro rischia di non essere più uno strumento di emancipazione, crescita e redistribuzione della ricchezza. L’elenco dei settori coinvolti potrebbe essere infinito: nell’Italia del XXI secolo assistiamo ancora a situazioni di sfruttamento palese, ma spesso anche i contratti “legali” non riescono più a garantire salari dignitosi.

L’illegalità nella legalità

“Non riuscivo ad arrivare a fine mese. Non potevo nemmeno comprarmi il pane o i biscotti ‘di marca’. Dovevo cercare nei discount il risparmio più totale”, afferma Vincenzo Lauricella, ex guardia giurata nella sicurezza aeroportuale attualmente delegato sindacale e membro del coordinamento nazionale lavoro privato dell’Unione sindacale di base (Usb). Da oltre dieci anni organizza iniziative e vertenze per il contrasto del lavoro povero, che – specifica – “non è tale perché è nato ‘povero’ o perché si è autodeterminato così. Come Usb preferisco chiamarlo ‘sottopagato’, perché è frutto di contrattazione collettiva che di fatto ha determinato paghe estremamente basse”.

Una delle sue battaglie più longeve è quella sul contratto collettivo della vigilanza privata e servizi fiduciari. “Sottoscritto nel 2013 da Cgil e Cisl, prevedeva una paga di 4,31 euro lordi l’ora, circa 3-3,50 netti. Dopo dieci anni è stato dichiarato incostituzionale dalla Cassazione, ma continua a essere applicato perpetuando un’illegalità nella legalità”. Il riferimento è all’articolo 36 della Costituzione, in quanto, continua Lauricella: “un contratto retributivo non può essere valido solo per assicurare la sussistenza. Se un lavoratore dedica il suo tempo a un’attività, deve percepire una paga adeguata a vivere dignitosamente, non a sopravvivere”.

Il Movimento 8x5

“‘Otto ore di lavoro per cinque giorni alla settimana’ è più di un semplice slogan. È un grido di battaglia per i diritti fondamentali dei lavoratori”. Lo afferma Sarah Caudiero, fondatrice del movimento 8×5 contro il super sfruttamento nella filiera della moda, molto diffuso nella provincia di Prato. “Il distretto tessile pratese, che non è solo il più grande d’Italia ma tra i più estesi in Europa, è stato teatro di condizioni lavorative estreme – continua Caudiero, che dal 2019 è anche sindacalista di base di Si Cobas -. Turni di 12 ore al giorno sette giorni a settimana, senza riposi né ferie pagate e copertura sanitaria, con retribuzioni che variavano tra gli 800 e i 1.300 euro”.

Nato tra i tintori, il movimento 8×5 ha rapidamente coinvolto altre categorie, dal settore tessile a quello della pelletteria, dando vita a scioperi prolungati per i diritti dei lavoratori, soprattutto stranieri. “Il processo di delocalizzazione ha importato a Prato, ma non solo, pratiche lavorative che un tempo si trovavano solo all’estero”, afferma Caudiero. Da qui la trasformazione del distretto in un luogo dove la precarietà e il super sfruttamento sono la norma, secondo un trend diffuso. “Si pensi alla recente inchiesta sulla Giorgio Armani Operations”, posta in amministrazione giudiziaria per presunto utilizzo negli appalti per la produzione di opifici abusivi e il ricorso a manodopera cinese in nero e clandestina.

L’attività sindacale e i lunghi presidi dei cancelli sono costati a Caudero numerose minacce, aggressioni, denunce e fogli di via. Tuttavia, anche la vittoria di numerose vertenze: “Mi sono ritrovata a fare mobilitazione con lavoratori con contratti da quattro ore che ne facevano dodici, o con persone che lavoravano in nero, senza contratto – afferma -. All’inizio mi sembrava un’impresa impossibile, ma la loro determinazione ha iniziato a portare delle vittorie, inclusa l’adozione di contratti a tempo indeterminato e l’applicazione del contratto collettivo nazionale, in questo caso tessile o della pelletteria”. Del resto, nonostante l’Italia sia uno dei paesi più sindacalizzati d’Europa, l’efficacia di tali associazioni è spesso messa in discussione: “La percezione del sindacato come mero fornitore di servizi, piuttosto che come difensore dei diritti dei lavoratori, rischia di indebolirne l’impatto. Tuttavia, esempi provenienti dagli Stati Uniti, dimostrano come movimenti sindacali forti e uniti riescano davvero a strappare condizioni migliorative”, conclude.

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