Rispondere alle necessità e ai bisogni dei lettori attraverso un modello di business sostenibile che sia “libero, internazionale, multilingua e praticabile” è l’unico modo per proteggere “il nostro lavoro e la democrazia”. È questa la ricetta proposta da Corinne Podger (Walkley Foundation for Journalism): al Festival internazionale del giornalismo di Perugia parla di solution journalism, un paradigma di qualità in crescita grazie alla scelta di reporter e redazione di puntare su pratiche di narrazione costruttiva dal forte impatto sociale, economico ed editoriale.
La potenzialità di questa “lente” attraverso cui ripensare l’industria dell’informazione risiede nella sempre maggiore attrattività di progetti improntati a fornire soluzioni ai lettori: tradotto, significa più tempo di permanenza sulle pagine e più appetibilità per gli inserzionisti, senza contare l’impatto che queste storie hanno sul rapporto di fiducia con il pubblico, utile anche per incrementare la disponibilità in termini di abbonamenti.
Benefici e limiti dell’approccio “solution” da tutto il mondo
Dina Aboughazala (Egab), Anita Li (The Green Line) e Lisa Urlbauer, (Bonn Institute) portano tre testimonianze di altrettanti esempi virtuosi nell’ambito del solution journalism provenienti da Egitto, Canada e Germania.
“In Egitto c’è una forte pressione finanziaria sui media, che dunque riescono ad avere una copertura limitata e devono far fronte a problemi come la fuga dei talenti e la news avoindance”, dice Dina Aboughazala, che poi aggiunge: “Oggi l’informazione si concentra sempre di più su quello che accade nei grandi centri, finendo per ignorare storie interessanti provenienti da zone meno conosciute”. La sua piattaforma, Egab, mette in connessione oltre 500 giornalisti provenienti da oltre 40 Paesi del mondo, rivolgendosi a più di 40 media, e rappresenta un’occasione per moltiplicare i guadagni e diffondere conoscenze internazionali a livello locale, migliorando la percezione dei reporter e facendo capire quanti lavorano a determinate questioni. Il conflitto israelo-palestinese è un esempio: “Dall’attacco del 7 ottobre abbiamo venduto cinquanta storie da Gaza: ne andiamo molto fieri, soprattutto considerata la difficoltà dei media internazionali di accedere alla Striscia”.
“Investigando il modo in cui viviamo andiamo alla radice dei problemi dei cittadini di Toronto”: è questo il manifesto di The Green Line, portato al Festival da Anita Li. Un progetto molto cresciuto in termini di diffusione durante la pandemia, grazie alla capacità di recepire il modello degli “user needs” nella gestione della redazione e del lavoro giornalistico: “Serve sempre maggiore disponibilità a pubblicare storie dal forte impatto, ecco perché la crescita del solution journalism dipende anche dallo spazio che si riesce a trovare da un punto di vista editoriale”.
“Usiamo l’approccio ‘solution’ per individuare la soluzione migliore e chi è in grado di applicarla: negli ultimi cinque mesi abbiamo pubblicato venti storie provenienti dalla zona di Mönchengladbach”. Lisa Urlbauer parla dell’esperienza del Bonn Institute, di cui è responsabile della formazione giornalistica: “Il nostro progetto mostra come le persone spendano più tempo online (+27%) per articoli di solution journalism, essenzialmente perché ne riconoscono il valore. Serve essere pazienti e continuare step by step, anche se non mancano limiti, su tutti l’impossibilità – al momento – di trovare una reale correlazione tra livello di engagement e tassi di sottoscrizione degli abbonamenti”.