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Violenza sulle donne. Nadia Somma (D.i.Re): “Serve una presa di coscienza collettiva”

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Giulia Cecchettin è la 105esima vittima di femminicidio del 2023. Oltre alla tristezza e alla rabbia in molte persone, questo femminicidio ha portato, nuovamente, il tema della violenza sulle donne al centro del dibattito pubblico – per esempio sui social network – e politico. È quindi riemersa anche la questione dell’educazione all’affettività nelle scuole come strumento centrale per contrastare la violenza sulle donne. Proprio dell’educazione all’affettività e di un modello maschile nella nostra società incline all’uso della forza e della violenza, abbiamo parlato con Nadia Somma, giornalista e autrice del libro Le parole giuste. Come la comunicazione può contrastare la violenza maschile contro le donne, che fa parte del consiglio direttivo dell’associazione D.i.Re, Donne in rete contro la violenza.

Questo, come gli altri femminicidi, è riconducibile a un modello maschile legato al potere e alla violenza che è preponderante nella nostra società?

La situazione è molto complessa, articolata, perché è ovvio che alla questione culturale si sommano questioni personali e individuali degli uomini che uccidono. C’è la storia di ogni singolo uomo, il tipo di esperienze affettive e relazionali che ha avuto all’interno della famiglia, le risorse e le caratteristiche che possiede. Questo è un dato di fatto. Poi c’è il contesto socio-culturale. È vero, molti terapeuti parlano di disturbi narcisistici, di disturbi borderline di personalità. Però ci sono donne che hanno altrettanti disturbi narcisistici e borderline ma non uccidono. Quindi evidentemente c’è una componente culturale legata comunque alla costruzione dell’identità di genere maschile che influisce. Dai dati che noi abbiamo in possesso risulta che gli uomini sono responsabili tra l’85 e il 97% di tutti i reati contro la persona. Quindi gli uomini agiscono con la violenza quando si trovano in situazioni di difficoltà, di crisi o di perdita di controllo in una misura che è molto superiore alla percentuale di donne che ricorrono alla violenze. Ormai il dato biologico, del testosterone per esempio, è stato confutato da tempo, quindi è evidente che l’elemento culturale è una componente fondamentale.

Come possiamo lavorare allora su questa componente culturale?

Innanzitutto con una presa di coscienza collettiva. Noi ci siamo battute per anni per dire che questi non sono singoli episodi isolati: è vero che abbiamo 100 donne uccise l’anno e spesso si dice che sono poche in relazione a una popolazione di 60 milioni di abitanti, ma è anche vero che l’uccisione delle donne è l’aspetto estremo più evidente, la punta dell’iceberg di una serie di violenze e discriminazioni alle quali le donne vanno incontro. Quindi serve una presa di coscienza collettiva che non consiste nel dire “L’uccisione della donna riguarda quel singolo caso”, ma questa fa parte di un contesto, di un fenomeno. È l’aspetto più grave di un fenomeno diffuso. Bisogna iniziare quindi a fare un lavoro sulla cultura, sul cambiamento culturale, anche da parte dei politici. Ci vuole un grande impegno con la politica, che invece è solo concentrata sull’aspetto securitario e sanzionatorio, con interventi nelle scuole, programmi ministeriali che ci parlino della libertà delle donne, che insegnino la parità dei diritti e che parlino anche della violenza. Servono laboratori per affrontare e gestire le proprie emozioni come la rabbia, per gestire i conflitti. Va fatto un programma che vada oltre le materie e dev’esserci anche un lavoro sulle persone, su ragazzi e ragazze.

E oltre alle scuole ci possono essere altri ambiti di intervento?

Personalmente penso che oltre a sostenere il welfare e i servizi sociali, che invece continuano a essere falcidiati, sarebbe importantissimo aprire dei consultori rivolti esplicitamente agli adolescenti. Parlo proprio dei ragazzi dai 12 ai 24 anni, quindi adolescenti e anche un po’ oltre l’adolescenza. Fabio Roia – presidente vicario del Tribunale di Milano – diceva che oltre il 40% dei reati di stalking, maltrattamento e violenze sessuali nel tribunale di Milano riguardano uomini tra i 18 e i 35 anni. In considerazione del fatto che abbiamo una popolazione estremamente invecchiata e quella fascia è minoritaria, il 40% è un dato molto elevato. Quindi serve lavorare sugli adolescenti e giovani uomini creando dei consultori come luoghi di ascolto e anche di riflessione sulla difficoltà quando si trovano a essere per esempio lasciati dalle ragazze, quando una relazione si chiude; come luoghi di consapevolezza per mettere in condizione gli uomini di manifestare i propri sentimenti ed emozioni. Perché nella crescita dei ragazzi esiste ancora un’inibizione fortissima e potente, anche se non in tutti, sulla manifestazione dell’affettività. Faccio un esempio. Ero alle terme l’altro ieri e due bambini di nove anni stavano giocando in acqua. Uno a un certo punto ha messo le mani sulle spalle dell’altro, che si è girato stizzito. Ma è il modo che mi ha colpito. Gli ha risposto infatti “non fare il f****o”. Io ho visto l’espressione dell’altro ragazzo mortificata. Cosa significa? Che questo ragazzo di nove anni che ha risposto così ha già interiorizzato l’omofobia a soli nove anni. E che l’altro mortificato, si guarderà bene dal fare gesti di affettività, li inibirà. Quindi questa inibizione dell’affettività delle emozioni è un danno per la crescita dei ragazzi. Ecco perché di fronte a questa afasia del gesto e della parola, che esprime il sentimento, resta il ricorso alla violenza.

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