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Storie di persone trans, tra ostacoli, lotte e nuove felicità

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Ogni anno, il 20 novembre si onora la memoria delle persone trans che hanno perso la vita in atti di violenza transfobici. Si tratta del Transgender day of remembrance, detto anche Tdor, instituito nel 1999 dall’attivista transgender Gwendolyn Ann Smith in memoria di Rita Hester, una donna transgender e afroamericana assassinata nel 1998 nel suo appartamento ad Allston, nel Massachusetts.

Tra l’inizio di ottobre 2022 e la fine di settembre 2023 sono stati denunciati, in tutto il mondo, 320 omicidi di persone trans o con identità di genere non binaria. È quanto risulta dal monitoraggio annuale di Transgender Europe, un’organizzazione non governativa che difende i diritti delle persone trans contro le discriminazioni. Un dato molto vicino a quello dell’anno precedente, che nello stesso periodo individuava 327 persone morte, vittime di transfobia, e che mostra come ancora oggi gli atti di violenza contro le persone trans non sembrino diminuire.

Le storie di Ema, Beppa e Leda

Ai veri e propri atti di violenza, poi, si devono sommare anche le microaggressioni, che una persona trans è costretta a sopportare nella sua quotidianità, dall’uso di pronomi scorretti all’utilizzo del nome assegnato alla nascita invece del nome di elezione, fino alle difficoltà vissute, ad esempio, quando è necessario andare dal medico. “È una cosa che io personalmente non vivo, ma conosco persone che hanno smesso di andare dalla ginecologa perché era insostenibile il giudizio che veniva fatto sul loro corpo in quel contesto”, racconta Ema Mombrini. Ema ha 25 anni ed è una persona non-binaria. “Le persone non binarie sono completamente oscurate rispetto al sistema medico. Il percorso di terapia, ad esempio, prevede che una persona passi dal genere assegnato a quello opposto. Una persona non binaria non è proprio considerata, né sono considerate le sue necessità”, spiega. Così, ad esempio, può accadere che una persona non binaria, che sta seguendo un percorso di terapia ormonale, riceva dal medico l’indicazione di assumere delle medicine che possono avere effetti collaterali. E questo, spesso accade perché il loro aspetto non è conforme al genere considerato coerente con gli ormoni che assumono.

“Ho dovuto cambiare medico perché mi dava soggezione. Ho provato a parlare con lui di queste cose, ma ho trovato un muro”, dice Beppa Giraudo. Beppa ha 70 anni e racconta che la sua è stata una storia “maschile fino all’età di 67 anni”. “Fino a 67 anni io ero Giuseppe Giraudo, ingegnere, professore, figlio di un personaggio illustre. Persona nata a livelli sociali abbastanza elevati, che ha vissuto per tanti motivi una vita assolutamente non autentica”, spiega. Per lei cambiare medico è stato fondamentale. “Ho trovato un medico molto aperto. Mi ha detto che avevo diritto alla felicità. E così mi ha permesso di fare il primo passo”.

Inizia un percorso psicologico e, dopo un anno e mezzo, riceve la diagnosi. “Un termine sbagliato, perché presuppone una malattia”, precisa Beppa. Infatti, l’incongruenza, così come la disforia di genere, non sono più considerate patologie dal 2018. Oggi Beppa, in pensione come insegnante, fa la badante ed è stata presa in carico dal Cidigem, ossia il Centro interdipartimentale disturbi identità di genere, di Torino. Il passo successivo, per lei, è stato proprio quello del lavoro. “Ho potuto esistere anche socialmente, non solo individualmente”.

Eppure, anche nell’ambito lavorativo, così come in quello sanitario, le persone trans rischiano di scontrarsi con un muro. “Ho fatto l’insegnante in una scuola, ma mi hanno chiuso il contratto con delle scuse perché hanno avuto paura che poi i genitori degli alunni venissero a sapere che io ero transgender”, dice Beppa. Anche per Ema, è stato, ed è ancora oggi difficile far capire la propria identità non binaria in ambito lavorativo. In particolare, per Ema si tratta dell’università. “Sono ambienti in cui si mantiene una certa distanza, per cui dover portare la mia identità è molto difficile – spiega -. Anche il fatto di essere l’unica persona che chiede di utilizzare dei pronomi diversi da quello che ci si aspetta è spesso una fonte di stress”.

Leda Artemisia Morena, invece, racconta di un’episodio che le è accaduto, diversi anni fa, alle Poste. Durante il processo di transizione, aveva ancora la sua vecchia carta d’identità e le hanno impedito di versare un bonifico perché non credevano fosse lei. Leda ha deciso di intraprendere il processo di transizione quando aveva 29 anni e anche lei, come Beppa, lo ha fatto al Cidigem di Torino, quando ancora la disforia di genere non era stata depatologizzata. “È molto importante avere degli specialisti validi intorno, perché un percorso di transizione è una cosa importante a livello metabolico. Va seguito correttamente per quanto riguarda l’assunzione delle terapie. Non si scherza”.

Il problema, però, è che le tempistiche possono essere molto lunghe. Beppa è stata presa in carico dal Cidigem da dieci giorni dopo due anni di attesa e avrà la prima visita medica ad aprile 2024. Nel frattempo va avanti con “il fai da te”. Si è informata da sola su Internet e, finché nessuno le dirà come fare le cose, porterà avanti la sua terapia ormonale da sola, “in modo assolutamente incosciente e pericoloso”. “È l’unico modo possibile, perché la società ti abbandona totalmente. I medici della mutua non ti dicono niente. Non è possibile avere delle visite endocrinologiche, se non sono inserite in un contesto organico”, racconta Beppa.

Le storie delle persone trans sono diverse tra loro. C’è chi sceglie di portare avanti una transizione medica e chi invece no. Gli ostacoli, burocratici, culturali e sociali, sono diversi tra loro, eppure in un certo senso simili, perché accomunati da un assenza di accettazione, di ascolto della persona. “Tanta della gentilezza che usiamo nei confronti delle altre persone non è davvero apertura nei confronti dei loro bisogni”, spiega Ema Mombrini. “A parte le forme di transfobia sistemica, che noi viviamo, il problema è anche quello: ci alleniamo poco a capire i bisogni delle persone e a risolverli. Abbiamo una visione molto funzionalista. Dobbiamo mettere le persone in un posto per cui fanno quello che devono fare, indipendentemente da quali siano le loro necessità”, dice.

L’euforia di genere

C’è però un’altra cosa che accomuna le persone trans, un senso di benessere, che per Beppa è gioia di vivere. Una vitalità, che trasmette anche ai giovani di Arcigay Cuneo e che deriva dalla consapevolezza che per lei è iniziata una nuova vita, quella di Beppa. “La transizione è una cosa che fa parte di me, ma non è solo quello. C’è molto altro e sono molto contenta così”, spiega invece Leda. Oggi lei vive a Mondovì e si ritiene molto fortunata, ha una famiglia che l’ha accettata per quello che è e ha trovato un compagno.

“Lungo il mio percorso ho sicuramente incontrato la felicità comune a chiunque può comportarsi nel modo in cui si sente – dice Ema -. Nel gergo della comunità si chiama euforia di genere ed emerge quando ci si sente coerenti alla visione che si ha dentro di sé”. Per Ema, poi, questa euforia dipende sempre dall’avere intorno a sé un gruppo di persone che vedono, capiscono la necessità di esprimere la propria identità. Nella comunità trans di Torino, Ema ha trovato un senso di accettazione ampio delle persone e delle loro storie. Lì ha scoperto la felicità che deriva dal “costruire insieme degli spazi nuovi, anche quando non si sa dove si arriverà”. “Dovremmo riscoprire il piacere di iniziare il viaggio verso qualcosa di diverso che può essere anche solo nostro e personale, ma che può avvenire unicamente con una comunità intorno a noi”, conclude.

Ema ha partecipato ai lavori di organizzazione della Trans March di Torino, organizzata il 18 novembre in memoria delle vittime di transfobia. Insieme al Coordinamento Torino Pride l’iniziativa è realizzata con il patrocinio della Città di Torino e della Città metropolitana di Torino.

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