Con leggerezza, tra un bicchiere di dolcetto e un caffè in piazza. Ma anche con realismo, a volte persino con durezza. Le voci dei protagonisti della seconda giornata del Festival della tv di Dogliani fotografano i mali del nostro Paese, dalla politica al giornalismo, dalla disattenzione del pubblico alle mille bolle filtro in cui le tribù si schierano senza darsi ascolto, fino al confronto tra le generazioni. Eppure, alla fine, non manca qualche traccia su cui ricostruire speranza.
Il primo schermo: Carlo De Benedetti all’attacco della destra “inadeguata”
È durissimo l’Ingegnere, qui di casa (non solo metaforicamente, visto che ha casa sulle colline di Dogliani) da quando c’è il Festival. Carlo De Benedetti, imprenditore ed editore, si affida alle domande di Daniela Preziosi di Domani e parte all’attacco sul rapporto tra il governo Meloni e il sistema dei media: “Siamo in un regime di destra in cui la Rai, senza bisogno di particolari ordini, è già cambiata profondamente – dice De Benedetti – Da tre o quattro settimane, la Rai non parla più di immigrazione. Gli sbarchi immagino continuino, ma il tema è scomparso dagli schermi perché disturba”.
“Il giornalismo sta andando a sbattere”, secondo l’editore. Informazione e politica sono due facce della stessa medaglia e la preoccupazione deriva dal fatto che le intenzioni di Meloni sono chiare. “La premier vuole un regime autoritario con i poteri accentrati a palazzo Chigi, con il cosiddetto sindaco d’Italia”. Una follia cambiare la governance del Paese secondo l’editore. “Se c’è una cosa che funziona è la presidenza della Repubblica. Sergio Mattarella è il miglior presidente che abbiamo avuto, ha navigato in modo straordinario in questi dieci anni”.
“Il governo Meloni andrà a sbattere con l’Unione europea perché non sa stare al passo con gli altri paesi europei”. Non ha mezze misure Carlo De Benedetti. Davanti alle frizioni tra Palazzo Chigi e la Corte dei Conti sul controllo dei fondi Pnrr, l’imprenditore non si nasconde dietro un dito. “Il problema non è ideologico quanto di preparazione e capacità. Non è normale che il ministro all’Agricoltura (Francesco Lollobrigida, ndr) parli di etnia”.
In altre parole, “è una compagnia di giro che ci governa, ma completamente inadatta al ruolo”, semplifica l’ingegnere. Ma ciò non toglie il suo “dispiacere” per l’Italia, che verrebbe a sua volta gettata contro un muro assieme al governo. L’unica nota positiva per De Benedetti, di fatto, sarebbe quella di “non vedere più quella faccetta lì che gira per Palazzo Chigi con la tv che la segue”.
Da qui, si apre uno spaccato di democrazia per De Benedetti. Perché “quando i governi cadono – dice -, sarebbe meglio andare al voto”. Nonostante la tendenza sia designare un governo tecnico (“una soluzione d’emergenza”), si amplificano due fenomeni: astensionismo alle urne dilagante e l’ampia sfiducia verso i palazzi della politica. Di fondo, continua, la ragione è semplice: “i cittadini non credono che la politica riesca a risolvere i problemi”.
Come la questione salariale. Di fronte a buste paga ferme da vent’anni, le radici dei magri stipendi italiani affondano nel boom della globalizzazione per De Benedetti. “L’Italia è stata vittima della globalizzazione – sostiene De Benedetti -. Quando è esplosa, tutto l’Occidente, e in particolare l’Italia, ha considerato di aver trovato una miniera di manodopera a basso costo”. Ecco che quindi la politica – in primis “il Pd” – deve fare all-in sul salario minimo. Una soluzione da vedere non come un rimedio radicale, ma come “un’eliminazione di cose scandalose come i lavoratori pagati due o tre euro all’ora”. Critico sul vuoto dell’opposizione, sa però che c’è da fare i conti col governo. “Giorgia Meloni è contraria a tutte le conquiste sociali – commenta De Benedetti – non mi stupisce che sia contraria al salario minimo”.
Fra le forze che spingono per il salario minimo, c’è il M5S di Giuseppe Conte. Considerato “uno sbaglio storico, un errore” da De Benedetti, il presidente pentastellato è colui che “ha salvato il Movimento dallo sparire, ma non farà nulla per dar loro un futuro”. Con l’augurio che lo scettro dei grillini passi all’ex sindaca di Torino, Chiara Appendino.
Il secondo schermo: i media e la crisi della sfera pubblica
Parte piano il tradizionale panel che riunisce un po’ di direttori e giornalisti per parlare delle “Coordinate per il il nostro prossimo futuro“: Alessandra Sardoni, che modera il confronto tra Daniela Preziosi (Domani), Francesco Cancellato (Linkiesta), Luca Ubaldeschi (Il Secolo XIX) e Andrea Malaguti (La Stampa), apre le danze su un classico tema che affligge il mondo dei media di oggi: il clickbaiting. Tutti condividono che è un male: “Se un titolo non corrisponde a un articolo perdiamo un lettore – dice Daniela Preziosi -. Quando una persona paga deve avere un prodotto vero”.
Con un certo ottimismo Francesco Cancellato, direttore di Fanpage.it, sostiene che però il problema è meno grave rispetto a qualche anno fa: “Tra le pandemia e Capitol Hill si è capito che il modello del clickbaiting metteva a serio rischio le nostre democrazie – spiega -. C’è anche il tema delle fake news. Anni fa con una notizia falsa si aveva una querela o al massimo una smentita il giorno dopo. Oggi invece è in gioco la reputazione del giornale”. Certo, il problema del clickbaiting aggiunge Luca Ubaldeschi, direttore del Secolo XIX è lungi dall’essere superato: “Il rischio esiste ancora perché vedo tanto traffico creato grazie a questa strategia”.
Poi però Andrea Malaguti, vicedirettore de La Stampa, mette il dito nella piaga: “Oggi nel giornalismo non ci mancano le coordinate – attacca – . Ma i lettori non basano le loro scelte su cosa diciamo noi. Le fake news hanno una capacità di resistenza e questo succede perché dipendono dalla visione di mondo che uno ha. In questo momento è complicato anche solo confrontarsi con le persone”.
Ecco allora, che Il giornalismo deve affrontare molte sfide per concentrarsi sul suo ruolo: “In realtà le persone che leggono i giornali sono mediamente istruite e scolarizzate, quindi hanno incipit culturali che non si sono formati sui nostri media – dice Malaguti -. Sui quotidiani allargano il campo di conoscenza. Noi però non siamo degli insegnanti di liceo, dobbiamo evitare di metterci in cattedra, restando persone che cercano di interpretare la realtà. Con il vantaggio, rispetto agli altri, di avere degli interlocutori diretti”.
Malaguti conserva la speranza: “La battaglia dell’informazione si vince con la serietà. Le persone di fronte ai grandi avvenimenti hanno bisogno di una fonte sicura, come abbiamo visto durante il Covid e la guerra in Ucraina. Le aziende che fanno informazione in maniera professionale hanno la struttura per mediare le informazioni e restituirle. È quello che le persone cercano”.
L’informazione di buona qualità è apprezzata concorda Daniela Preziosi: “La nostra inchiesta su Giorgia Meloni è una delle più cliccate. Due nostri giornalisti hanno raccontato, attraverso un fact checking pagina per pagina della sua biografia Io sono Giorgia che la realtà era diversa”.
Il terzo schermo: millennial vs boomer
Per parlare del confronto tra le generazioni il Festival ha puntato su due brillanti epigoni di due diverse generazioni di adulti: Enrico Bertolino, nato manager e diventato comico, e Beniamino Pagliaro, caporedattore di Repubblica Torino. Tema: il divario generazionale tra boomer e millennial. A Pagliaro, millennial, toccano le domande e a Bertolino, boomer, le risposte.
Il primo terreno è, ça va sans dire, quello della tv e dei social network. Oggi, si sa, la televisione invecchia a ritmi incredibili. Eppure è uno dei pochi medium, secondo Bertolino, a poter dare credibilità a chi racconta le notizie. I social network, infatti, spiega l’ex protagonista della seguitissima sitcom Piloti, non hanno la stessa autorevolezza. Per i boomer, infatti, la televisione ha una grandissima responsabilità — e potenzialmente un grandissimo potere — su tutte le generazioni. Il problema è il corto circuito creato da social network come TikTok, che attirano i più giovani, apparendo più credibili e accattivanti.
Secondo nodo, la diseguaglianza. La differenza salariale tra le due generazioni è dovuta soprattutto al contesto socio-culturale e storico in cui sono cresciute. I boomer si sono hanno dovuto fare i conti con un’Italia da ricostruire dopo la seconda guerra mondiale. Per andare da Roma a Milano, sottolinea Bertolino, ci volevano 33 ore in treno. Da un lato si spendeva di meno, ma dall’altro è stato necessario rinnovare il Paese: la crescita e il boom economico sono stati necessari. Il mondo dei millennials, invece, è stato opposto a quello precedente. I costi sono aumentati esponenzialmente negli ultimi decenni, ma questa generazione è abituata a una crescita economica praticamente pari a zero.
La differenza più importante, forse, riguarda proprio la possibilità di futuro e il diverso mondo lavorativo di queste due generazioni. Molti boomer provengono da famiglie umili, ricorda Bertolino: i genitori hanno dovuto faticare per far studiare i propri figli. Per i millennials, invece, è stato diverso: a loro è stata fatta la promessa di un futuro brillante: hanno potuto viaggiare, partecipare ai programmi Erasmus, scegliere quale ambito approfondire a scuola e all’università. La promessa fatta dalla generazione, però, non è stata mantenuta. I millennials, in Italia, sono entrati nel mondo del lavoro in concomitanza con la crisi finanziaria del 2008, e il futuro tanto atteso si è rivelato precario e insidioso per molti di loro.
La situazione ha portato anche un risvolto positivo: i millennials, così come la generazione Z, sono sempre più consapevoli del mondo in cui vivono, e questo li ha portati a essere più cinici riguardo al loro futuro. “I millennials si ribellano. Abbandonano il proprio posto di lavoro, se la promessa fatta non viene rispettata — commenta Bertolino —. Fondano startup, si dedicano all’agricoltura biologica, vivono. E fanno bene”.