Alla resa dei conti, vince ancora Recep Tayyip Erdogan. Anche se non è stato un trionfo da cappotto, anzi. Con circa il 52% dei consensi, il presidente uscente della Turchia viene riconfermato nel ballottaggio contro lo sfidante Kemal Kilicdaroglu. Altri cinque anni di governo, fino al 2028, per il leader del partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), 69 anni di cui più di venti al comando della scena politica del paese. Leader più longevo della storia politica turca, adesso lo aspetta un terzo mandato che parte durante un’occasione importante. Ossia l’anno del centenario dalla fondazione della Repubblica plasmata da Mustafa Kemal Ataturk. Quella moderna e laica, improntata verso il secolarismo.
Quell’idea di società che Kilicdaroglu ha provato a rilanciare. Catalizzatore delle forze d’opposizione, il volto del partito Popolare Repubblica (Chp) ci ha sperato fino all’ultimo. Non solo perché è il primo oppositore a portare il Sultano allo spareggio per le presidenziali. Ma anche per averlo fatto sudare freddo durante la campagna elettorale. Però, già l’esito post 14 maggio aveva assopito l’entusiasmo: alla prima chiamata Erdogan si era aggiudicato un consenso del 49,5%. Uno stacco di oltre quattro punti rispetto all’avversario, fermo al 44,9%. Senza dimenticare che il partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) era riuscito ad aggiudicarsi oltre 19 milioni di voti nella definizione del puzzle parlamentare. Pari a un bottino del 35,6% che si traduce con l’aggiunta dell’alleata Alleanza popolare in 322 deputati sui 600 totali della Grande Assemblea.
Dietro il voto, le dinamiche interne
In tanti speravano, un po’ ingenuamente forse, nell’effetto sorpresa: con l’affluenza all’84%, gli occhi del mondo erano sulla Turchia, nonostante le dinamiche internazionali abbiano avuto poco risalto nella campagna elettorale. Questo perché, spiega Samuele Vasapollo, analista di relazioni internazionali specializzato in Medio Oriente, “in realtà le forze politiche si sono focalizzate molto di più sulla dimensione domestica. Kemal Kilicdaroglu ha ottenuto consenso internazionale soprattutto dai paesi che vedono di cattivo occhio Erdogan e che hanno proiettato in lui un’immagine di democrazia liberale”.
Una proiezione che l’ha etichettato come faro del progressismo turco, nonostante uscite molto durissime verso i migranti irregolari, nonostante un accordo con il leader ultra-nazionalista del partito della Vittoria, Umit Ozdag. Proprio la pressione migratoria è stata uno temi bollenti degli ultimi mesi in Turchia. “Risolverla era ed è un obiettivo di entrambi – spiega Vasapollo -. L’opposizione ha sfruttato l’emergenza che ha avuto luogo durante i mandati di Erdogan per dimostrare l’incapacità nella gestione del rimpatrio dei siriani e nel garantire sicurezza a livello nazionale. C’è però il contraltare diplomatico: negli ultimi mesi, grazie alla Russia Erdogan ha riaperto i canali di dialogo con il presidente siriano, Bashar al-Assad, da poco incluso nuovamente nella Lega Araba”. Un primo passo dopo anni di distacchi e conflitto che potrebbe segnare un nuovo destino per gli oltre 3,6 milioni di rifugiati siriani sul territorio turco.
Occhio all’Erdoganomics
Altro terreno di scontro è stata l’economia nazionale. Molti elettori hanno ridato fiducia a Erdogan anche per questo motivo. Sia perché c’è una fetta di territorio da ricostruire, a seguito dei violenti terremoti dello scorso febbraio, sia per fronteggiare un’inflazione fuori giri e la svalutazione della lira turca. “Alla prima chiamata – ricorda l’analista – da quelle zone è uscito un forte sostegno a Erdogan che, subito dopo la devastazione, ha promesso ingenti sforzi economici. Ciò è dettato anche dal fatto che è una parte della Turchia meridionale, con standard di vita inferiori rispetto a dove aveva vinto il Chp, ossia nelle regioni costiere, più europee e globalizzate”.
Sul fronte della politica monetaria però gli animi si fanno più caldi con posizioni speculari da parte di Erdogan e Kilicdaroglu. “Kilicdaroglu aveva promesso di elevare di molto i tassi d’interesse per fronteggiare l’inflazione – fa presente Vasapollo -, ma la cosiddetta Erdoganomics gode di buona salute interna: con politiche monetarie poco ortodosse, diventa sempre più difficile l’import di prodotti dall’estero visto il cambio di valuta sfavorevole. Per questo, il suo obiettivo è quello di favorire il consumo di prodotti di marca turca”.
La conferma del presidenzialismo
Infine, fra le divergenze fra Erdogan e Kilicdaroglu c’è stata l’assetto istituzionale. Con Erdogan è la vittoria del “modello accentrato”, in un paese convulso dai colpi di stato nella seconda metà del Novecento. Il primo passo risale al 2007, con il passaggio dal parlamentarismo al semi presidenzialismo. Dieci anni dopo, la riforma costituzionale nelle brame del Sultano: un presidenzialismo a tinte turche con il venir meno del primo ministro e l’allargamento dei poteri al capo di Stato (tra cui, il potere di nomina dei ministri, di 12 giudici della Corte costituzionale e scioglimento delle camere). “Kilicdaroglu aveva puntato al ritorno al parlamentarismo – commenta Vasapollo -, sebbene sarebbe stato molto difficile da compiere visto che la maggioranza parlamentare ce l’ha l’Akp”.
Attenzione alla Russia
“Oggi si apre il secolo della Turchia”, ha urlato in piazza il Rais Erdogan. Un paese dalle mille anime: europea e atlantista, nonché asiatica e portabandiera dell’islamismo politico. Posizioni che danno l’impressione di una penisola a cavallo tra quella secolarizzazione cullata da Ataturk e uno strenuo conservatorismo rimarcato negli attacchi alla comunità Lgbtq. Che però in termini di relazioni internazionali mantiene ancora la sua rilevanza (basti pensare alle negoziazioni nell’accordo sul grano con Russia e Ucraina in pieno conflitto). Perciò, quali conseguenze ci sarebbero state davanti a una mancata vittoria del presidente uscente? “A livello di relazioni internazionali, ci sarebbe stato a un reshape – commenta la giornalista Marta Ottaviani, corrispondente internzionale per Avvenire, La Nazione e La Stampa – Perché Erdogan ha basato i negoziati del paese su un rapporto ampiamente personalizzato, cosa che evidentemente Kilicdaroglu non saprebbe fare”.
E una prima incrinatura sarebbe stata con la Russia di Vladimir Putin. Mosca che nello scacchiere geostrategico mantiene la sua nomea di potenza, secondo molti analisti, anche se sembra star stracciando la sua veste di impero, come ha evidenziato il ministro della Difesa Guido Crosetto al Salone del Libro. Un’opinione condivisa anche da Ottaviani: “Non è più un impero, ma è ancora convinta di esserlo. Quello cui stiamo assistendo è il disfacimento ultimo di un impero che sta passando anche la fase sovietica”. Anche alla luce degli ultimi risultati sul campo di battaglia in Ucraina e degli scricchiolii interni, quell’idea granitica di Russia come impero sembra quindi vacillare. D’altra parte, però, c’è “la battaglia dell’informazione – spiega sempre Ottaviani – dove c’è sostanzialmente un vero e proprio ribaltamento dalla realtà da parte della Russia”.
Infatti, in occasione della presentazione del suo saggio Brigate Russe (Bompiani) al Salone del Libro, la giornalista ha spiegato come “la Russia stia lavorando da almeno tre decenni questa guerra non lineare fatta di attacchi hacker, disinformazione, ecc., dandone prima un assaggio con le elezioni presidenziali statunitensi del 2016, poi con il referendum per la Brexit e oggi si ravvede nel dibattito pubblico italiano”.