“Abbiamo iniziato ad utilizzare più Terra di quanta ne possediamo”. Parte da qui Nadia Lambiase, ricercatrice, dottore di ricerca in economia circolare, ceo e fondatrice di Mercato Circolare, una startup innovativa a vocazione sociale che attraverso una piattaforma di connessione tra cittadini, imprese e istituzioni, offre formazione e consulenza sui temi dell’economia circolare. In occasione dell’Earth Day abbiamo scelto di partire da qui, dalla prospettiva dell’economia circolare. In milioni di anni, la Terra è stata più volte in grave pericolo (come dimostrano le cinque estinzioni di massa), ma la vera novità, sia pur drammatica, sta nel fatto che a mettere a rischio il pianeta siano oggi per la prima volta non più fattori esogeni bensì cause imputabili all’essere umano, una delle specie viventi che abitano l’ecosistema: dinamiche, processi e circostanze gravi, dall’innalzamento delle temperature globali alla perdita di biodiversità, che in un futuro sempre più prossimo promettono di minacciare anche l’homo sapiens.
S.O.S. Terra
“E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’”. A guardarla dalla Luna cantata da Gianni Togni, la Terra appare come una biglia blu che ricorda una navicella spaziale, dice Lambiase. Che ripropone una metafora proposta da Kenneth Boulding nel 1968: “Il nostro pianeta – spiega Lambiase – è un sistema chiuso che scambia energie con il mondo esterno ma non materia, quindi tutte le risorse di cui disponiamo sono già date e tutti i rifiuti che generiamo non possono essere mandati altrove”.
Il cuore del problema è tutto qui, prosegue Lambiase: a partire dalla Rivoluzione industriale si è innestata una visione lineare che vede l’Uomo al centro di un processo produttivo di beni poco durevoli, pensati e creati per un utilizzo breve e destinati a diventare ben presto rifiuti. Tutto ciò, spiega la ricercatrice, ha un forte impatto negativo sull’ambiente perché, in un contesto di risorse limitate, per quanto rinnovabili, “l’equilibrio inevitabilmente salta a causa del sovrasfruttamento delle capacità terrestri”.
Negli anni si è provato a individuare in più ambiti diversi rimedi strutturali al pericolo che incombe sul nostro pianeta. Tra questi, grande importanza ha assunto col tempo l’economia circolare, che secondo Nadia Lambiase si configura come “un costrutto interdisciplinare che deve tenere insieme diverse dimensioni: quella economica, fisica, biologica, ecosistemica e sociologica”. Intendendola come un “esercizio di postura e di visione”, l’economia circolare può essere adottata come strategia per sovvertire la linearità che regola i processi di produzione a patto di mettere in discussione la narrazione dominante della crescita continua e infinita: “L’obiettivo ultimo dev’essere uno sviluppo sostenibile che garantisca e leghi insieme prosperità, giustizia sociale e tutela delle risorse naturali”.
Nuove regole, nuovi approcci
Tra le formule che descrivono l’economia circolare, una delle più interessanti riguarda le 10R, da intendere come una nuova lista di dieci comandamenti per un approccio responsabile al mercato che abbia a cuore la tutela dell’ambiente. Si parte dalla R generativa, la numero zero, dalla quale tutto trae origine: “È la R di rifiutare, avere la capacità di dire no a un sistema economico e culturale dominante”. Da qui prende il via un processo che punta a ripensare e ridurre gli usi e gli sprechi, per passare poi a tutta una serie di espressioni (sempre inizianti per R) che permettono l’allungamento della vita dei prodotti e attraverso cui è possibile riscoprire anche saperi e tradizioni antiche, in un continuum tra passato e futuro: se il riparare chiama in causa e restituisce valore a figure professionali d’altri tempi come calzolai e sarti, oggi sempre più una rarità nei contesti urbani, il ricontenere (“neologismo creato ad hoc”, come spiega Lambiase) guarda alla nuova vita di imballaggi che possano espletare la propria funzione a lungo, contro il modello dell’usa e getta.
Il prezzo è giusto?
Appurato che modelli come l’economia circolare hanno un forte impatto nelle dinamiche che regolano la società, è necessario interrogarsi su un elemento determinante che è alla base dei sistemi economici, ovvero la definizione dei prezzi. Chi stabilisce il costo dei prodotti e delle materie prime? Nadia Lambiase non ha dubbi: “Siamo noi ad assegnare il prezzo, un costrutto politico e sociale che secondo la narrazione comune è dato esclusivamente dalla dinamica domanda-offerta, nonostante ci siano tantissimi altri fattori che concorrono alla sua definizione”. Un problema che affonda le sue radici nel pensiero di Tommaso d’Aquino, che già nel 1200 si interrogava sull’entità del giusto prezzo. “Sarebbe bello se il prezzo indicasse realmente la materia utilizzata e l’impiego di energia in fase di produzione” sottolinea la ricercatrice, ponendo l’attenzione sull’esistenza di costi nascosti che non vengono presi in carico dal sistema produttivo che offre come riferimento prodotti dal costo talmente basso da annichilire i tentativi di competitività di chi opera nel settore del biologico o del riciclo.
Condividiamo responsabilità e futuro
Arriviamo così a un punto dirimente: qual’è il grado di responsabilità dell’essere umano nei confronti del pianeta e da chi è condiviso? Una relazione produttore – consumatore grava eccessivamente sulle parti in gioco poiché non tiene conto delle istituzioni, dei governi e del loro “ruolo di attori strategici dotati del potere necessario a stabilire divieti e varare incentivi, come ad esempio una fiscalità agevolata su tutto ciò che utilizzi materia prima proveniente da prodotti di riciclo o che impieghi materiale rinnovabile anziché fossile”. La comunità internazionale e player geopolitici come l’Unione europea hanno da tempo preso coscienza del problema, ma oggi il vero nodo da sciogliere è legato a una struttura dei prezzi figlia delle logiche short term, costruita non per rendere più conveniente il bene ambientalmente e socialmente meglio costruito ma finendo, al contrario, per dare più risalto e valore a beni la cui produzione impatta drasticamente sul nostro ecosistema. “Affinché tutti questi costi non vengano pagati dalle generazioni future” commenta Lambiase, “è necessaria una riscrittura dei testi dell’economia dove lo scopo ultimo delle imprese non deve più essere la massimizzazione del profitto ma la sostenibilità economica da cui si generi un beneficio pubblico per la collettività e per l’ambiente.”
Il futuro passa inevitabilmente dalle nuove generazioni ma è necessario investire in cultura e istruzione: già nel 2017 l’economista inglese Kate Raworth aveva individuato in “L’economia della ciambella” uno spazio sicuro ed equo per l’umanità compreso tra due cerchi, quello esterno che rappresenta i limiti planetari e quello interno che è definito invece dai limiti sociali. “In quello spazio, che è il nostro, c’è una dinamica e c’è un movimento, ma c’è anche equilibrio” sottolinea Lambiase: “serve mettere in atto un esercizio cognitivo di narrazione e di visione: far capire agli adulti del domani che ottenere tutto e subito non è per forza la soluzione migliore diventa imprescindibile”. Ma nel concreto, cosa si può fare nella quotidianità? Per quanto, come detto, la responsabilità maggiore nel dare il via ai principali cambiamenti sia principalmente nelle mani dei governi, ciascuna delle parti in causa può dare il proprio contributo, a cominciare dalla cittadinanza a cui è attribuito il democratico privilegio di compiere delle scelte.
“I cittadini possono essere una massa critica significativa nel condizionare le decisioni verso cui i governi devono orientarsi” ha detto la ricercatrice, che ha poi aggiunto “l’istruzione dovrà essere, in tal senso, la leva centrale per costruire una nuova narrazione che contrasti il modello dominante: un processo sicuramente lungo ma necessario.”
Da Torino esempi virtuosi
Nel frattempo che questo processo venga portato a compimento, si può guardare a quei modelli già esistenti che forniscono esempi virtuosi da prendere a esempio: tra i tanti sul territorio torinese, Nadia Lambiase cita l’azienda Atelier Riforma e la sua piattaforma Re4Circular, il cui fine ultimo è la rivalorizzazione di tutti gli scarti tessili così da reimmetterli nel mercato dell’usato prima che diventino rifiuti. Nel campo del food packaging opera invece la startup Around, produttrice di imballaggi sostenibili per l’ambiente e, soprattutto, riutilizzabili, in piena sintonia con il “ricontenere” previsto dal modello delle 10R.