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Il linguaggio che divide Walter Siti e Vera Gheno

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“Il linguaggio ampio è uno dei tanti livelli sui quali bisogna lavorare per andare nella direzione di una società più giusta”: così Vera Gheno al margine dell’evento Parolə, parolə, parolə per Biennale Democrazia. Secondo la linguista, per raggiungere un risultato bisogna superare la dimensione linguistica: citando il linguista Federico Faloppa, Gheno spiega che è fondamentale, “mantenere le parole inchiavardate alla realtà”. Lingua e realtà si danno man forte a vicenda in questo processo di transizione verso una società più equa. Alla quale la divulgatrice non sa se arriveremo mai, ma, precisa, “è uno di quei casi in cui ha senso anche solo godersi il viaggio”. La scrittrice si sofferma sulla rilevanza sociale del linguaggio, un mezzo attraverso il quale si creano e si dividono nazioni: un atto collettivo. D’altra parte, è proprio nel momento in cui nomino una cosa che questa diventa visibile. Il senso dell’“operazione schwa” è proprio rendere visibile l’esistenza dell’altro, come un dito in un occhio. Lo scopo non è diventare norma, ma fare inciampare le persone su dinamiche date per scontate ma che scontate non sono. È importante sottolineare che non esiste unanimità nell’utilizzo dello schwa. Molti lo considerano come espressione di una terzietà: tutte, tutti e tuttə. Invece, secondo Gheno, lo schwa raggruppa già tutte le diverse personalità esistenti: un’altro tentativo per raggiungere l’uguaglianza.

Esprime invece perplessità lo scrittore Walter Siti: partendo dal presupposto di includere fino all’ultima persona attraverso il linguaggio, si rischia paradossalmente di eliminare le distinzioni iniziali, di rendere tutti uguali in senso negativo. Questa ricerca continua del pelo dell’uovo toglie le persone dalla comodità dell’essere normale. Una lotta che corre il pericolo di diventare un’arma per chi sta dall’altra parte: secondo lo scrittore, “la sinistra sta fornendo il braccio destro” a chi vuole combattere questi processi. E una difesa a oltranza dell’ultimo della gerarchia sociale mette a tacere discorsi anche più importanti. È una questione di strategia.

“La gente – continua Siti – è troppo impegnata a dirci chi è quando forse sarebbe più utile che ci dicesse chi desidera”. Si assiste come a una smania di essere definiti. In questo senso, lo schwa sta creando più problemi di quelli che sta risolvendo. Secondo il critico letterario, è certamente importante porre la questione, ma nel momento in cui si crea dibattito non bisogna fermarsi alle prime soluzioni trovate. Il risultato si raggiunge quando vengono accettate soluzioni alternative più efficaci. “Il problema non è il rinculo: è rinchiudersi in una bolla in cui ci capiamo tra di noi, ma gli altri non ci capiscono”, continua Siti.

Gheno mostra scetticismo verso i problemi portati alla luce dal saggista. Certamente, sostiene, viviamo in un periodo in cui le categorie si stanno moltiplicando: è come un asintoto che vuole raggiungere la perfezione ma non ci può riuscire. Secondo la scrittrice, però, si tratta solamente di un periodo di transizione, in cui le comunità cercano di capirsi. Passato questo, le persone si raggrupperanno attorno a meno definizioni, forse anche più sensate. Secondo la linguista è importante sottolineare invece un aspetto che spesso sfugge: chi sta nominando cosa. Chi ha inventato i termini “non udente” e “non vedente” era udente e vedente. Il discorso cambia se ci si concentra sul concetto di autodefinizione.

L’idea del direttore del Post Luca Sofri è che spesso la discussione sfocia nell’assurdità. Non è chiaro cosa importi a chi critica il linguaggio ampio che alcune persone lo utilizzino: “Non stai veramente creando problemi a nessuno se preferisci usare la parola ‘operatore ecologico’ al posto di ‘spazzino’”, dice Sofri. Il problema è che il dubbio viene instillato da chi ha la coda di paglia. Gli eccessi, quindi, non sono sulla quantità ma sulla qualità e sulla presa di posizione.

Il dibattito si è concentrato anche sulla vicina questione della cancel culture. Secondo Siti, questo fenomeno presenta un aspetto positivo: eliminare le opere che presentano situazioni di privilegio così fossilizzate da apparire naturali, scardinare le ovvietà ingiuste. Possiede anche, però, un rovescio della medaglia: non tenere conto del contesto in cui sono dette le cose, soprattutto se si tratta del passato. Una castrazione culturale insopportabile, secondo il saggista.

Gheno non pensa che la cultura della cancellazione sia un problema italiano: nel nostro Paese si crea spesso molto rumore per nulla. L’istanza del linguaggio attento alle diversità è soggetta a storture, in quanto viviamo in una società che sta sulle barricate, che teme spasmodicamente di essere sollecitata in maniera negativa. In questo modo, nelle migliori intenzioni, si censurano le cose più assurde. Dall’altra parte, però, secondo Gheno, chi sbraita contro il politicamente corretto lo fa dall’alto delle sue posizioni, scrivendo su quotidiani nazionali o intervenendo a programmi di spicco in televisione.

Dall’altra parte, Sofri sottolinea l’assurdità della critica al politically correct, che ricorda quella attorno al buonismo: una critica al corretto e al buono, due concetti di cui però non esiste eccesso. Il direttore del Post crede che in questi ambiti sia necessaria una certa dose di tolleranza verso l’interlocutore: sarà quella persona a cadere vittima delle sue stesse parole. Anche perché, continua il giornalista, bisogna considerare che l’essere umano predilige la binarietà: un concetto attecchisce facilmente se è semplificato a poche categorie, meglio se solo due. È più semplice catalogare e generalizzare: l’importante è avere presente che questa semplificazione non corrisponde alla realtà.

Un grande ruolo, secondo Gheno, è giocato dallo studio e dall’insegnamento. È fondamentale spiegare la complessità, ma questo passa dalla consapevolezza che non tutto è di facile comprensione. È auspicabile quindi non avere fretta: fermarsi, chiedersi in che contesto si sta agendo, quali sono le intenzioni e chi sono gli interlocutori. Gli stereotipi sono da sempre il punto di partenza della nostra conoscenza e della nostra comunicazione: il problema si pone se diventano anche il punto d’arrivo. In questo senso, la divulgatrice elogia un articolo del Post dedicato al concetto di “carità interpretativa”: è importante partire dal presupposto che il nostro interlocutore non sa e tenere a mente che potremmo esserci espressi male noi. Bisogna quindi affrontare il conflitto, non rifuggirlo, per aiutare il mondo a essere meno ipersensibile.

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