Un momento di stallo caratterizzato da sofferenza e solitudine. Il periodo di detenzione per i carcerati dai 18 anni ai 25 anni del carcere Lorusso e Cutugno di Torino è quanto di più lontano dalla funzione rieducativa, sancita dalla Costituzione. Il 44% di loro non è inserito in nessun percorso formativo o lavorativo durante il periodo detentivo. A dirlo è il report “Giovani, dentro e fuori. Un’indagine per conoscere la popolazione giovanile nella Casa circondariale di Torino” condotto dalle studentesse e studenti della clinica legale Carcere e Diritti. Ma anche il prefetto di Torino Raffaele Ruberto riconosce il problema: “Dobbiamo favorire le pene alternative. Molte persone non dovrebbero trovarsi in carcere”.
I limiti della sanzione penale della detenzione, almeno nella sua forma attuale, sono ancora più evidenti, insomma, quando la detenzione avviene durante il periodo della costruzione della propria identità di giovani adulti.
Un altro dato impressionante riguarda le relazioni: oltre la metà dei giovani detenuti, il 54%, non svolge colloqui di nessun tipo con familiari o terzi, solo il 3% entra in relazione con entrambi.
La ricerca, avvenuta tra il mese di gennaio e il mese di maggio del 2022 su 149 giovani adulti detenuti su un totale di 179 presenti nel carcere, scatta una fotografia della situazione. In Piemonte, a giugno del 2022, i giovani adulti detenuti rappresentavano il 6.5% del totale. Un dato che supera il trend nazionale del 5.8%. Il carcere di Torino arriva a una percentuale del 10%, superando sia il dato regionale che quello nazionale. Tra le cause degli arresti al primo posto ci sono furti e rapine (41%) e al secondo posto i reati legati alle sostanze stupefacenti (28%).
La mancanza di una progettualità nella vita dei giovani detenuti porta a giornate vuote e senza stimoli, poco utili a un effettivo percorso di reinserimento nella società. “Un giovane detenuto mi ha detto di aver spedito la domanda per accedere a corsi di formazione professionale diverse volte, senza risultati”, ha raccontato uno degli studenti coinvolti nello studio. Non conta quindi solo la volontà dei ragazzi, ma anche la lentezza dei meccanismi “arrugginiti” del carcere.
Prima dell’arresto, il 49% aveva un lavoro. Ma solo un 16% continua un’attività lavorativa all’interno del carcere. E l’assenza di supporto psicologico e del mantenimento dei legami affettivi esterni rappresenta anch’esso un pericolo dentro e fuori, una volta scontata la pena. “Mi sono accorto di quante poche figure di supporto ci siano rispetto al numero dei detenuti”, ha affermato un altro studente.
Il 45% ha dichiarato di non svolgere colloqui con alcun operatore penitenziario. In totale, sommando chi svolge colloqui ma solo con altre figure di riferimento, il 68% dei giovani adulti non ha avuto alcun tipo di contatto con i componenti dell’area trattamentale della Casa circondariale. Tra questi c’è anche chi dichiara di non avere mai avuto un incontro con un educatore neppure al momento del primo ingresso. E quando all’entrata viene fatto compilare la scheda personale, tre quarti di questa riguarda principalmente le condizioni socio-anagrafiche. Lo spazio lasciato alle competenze e ai desideri è minimo, nonostante la potenziale utilità nel percorso di reinserimento.
Si aggiungono al fenomeno le irregolarità rilevate nel carcere di Torino. Non c’è separazione fra under 25 e adulti nonostante la divisione venga stabilita dall’articolo 14 dell’ordinamento penitenziario. Il 44.7% degli intervistati condivide la cella con una persona di età superiore ai trent’anni. La permanenza prolungata nelle sezioni “nuovi giunti”, un momento di passaggio prima dell’entrata in carcere, riflette inoltre un’altra irregolarità nella struttura torinese. Il reparto dovrebbe valutare il rischio suicidio dei soggetti per poi trasferirli, il prima possibile, in un reparto ordinario. Al contrario, il periodo ponte dura mediamente due mesi all’interno di una struttura esclusivamente di pernottamento che non offre gli spazi e i trattamenti necessari di un giovane appena entrato in carcere.
“Dobbiamo cambiare le regole del gioco e trasformare questa ricerca in azione”, ha detto Catia Taraschi, responsabile dell’Ufficio detenuti di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Nei prossimi mesi i dati della ricerca verranno presentati alla Commissione legalità del comune di Torino per affrontare la situazione emersa.