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Naufragio di Cutro, mai partite le operazioni di ricerca e soccorso

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“Mai partite le ricerche che potevano salvarli”. La ricostruzione del procuratore di Crotone Giuseppe Capoccia rivela alcune delle responsabilità del naufragio di Cutro, che domenica mattina è costato la vita ad almeno 66 persone. Considerando i corpi dei dispersi il numero totale delle morti si aggira intorno al centinaio e conta circa venti bambini, uno appena nato. Il procuratore Capoccia, che dopo la strage ha aperto un’inchiesta per ipotesi di omicidio, disastro colposo e favoreggiamento dell’immigrazione illegale, ha detto che al momento della segnalazione “da Roma si è deciso di far uscire i mezzi della Finanza per un’attività di polizia e non di soccorso”.

La ricostruzione dei fatti

Capoccia aveva specificato ieri che si trattava di una normale prassi quella di aprire un’inchiesta per trovare le responsabilità del naufragio, ma aveva escluso che l’indagine fosse sul ritardo dei soccorsi. Dalle sue ricerche emerge, però, che “nessuno ha mai dichiarato un evento Sar (dall’inglese “Search and Rescue”) per questo barcone, e quindi non è mai partita un’operazione di ricerca e soccorso”. Un messaggio radio di mayday, inviato dallo Imrcc (Italian Maritime Rescue Coordination Center) a tutte le imbarcazioni nel Mar Ionio, sabato mattina presto, avvisava di una “nave in distress” e invitava chiunque avesse notizie a contattare le autorità italiane. L’intercettazione da parte dell’aereo Frontex Eagle 1 è avvenuta solo dopo, intorno alle dieci di sera. “Avvisata subito l’Italia”, dice un portavoce dell’Agenzia europea che pattuglia le frontiere comunitarie. “Non ci hanno segnalato le difficoltà”, ha affermato la Guardia costiera. Uno scaricabarile che ha causato uno dei naufragi più gravi dal 2013.

Si parla di quasi 200 persone migranti che erano partite quattro giorni prima da Izmir, Turchia, stipate in una barca di legno. Si davano il cambio per salire in superficie a prendere aria. Domenica mattina il mare forza 4 ha finito per spezzare la loro barca a metà proprio a un passo dalle coste italiane. La sabbia di Steccato di Cutro, ricoperta di legno e corpi esanime, suggerisce un cortocircuito tra la politica italiana, il diritto internazionale e la pratica dei salvataggi in mare, resa tanto più difficile dall’ultima stretta sulle ong voluta dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.

La narrazione politica e le responsabilità italiane

Bloccare le partenze, punire gli scafisti: di fronte al disastro, il governo italiano ha risposto attingendo a un linguaggio politico preciso. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso “profondo dolore per le vite spezzate dai trafficanti di uomini”. Il ministro Piantedosi si è recato sul luogo e ha tenuto una conferenza stampa in cui ha affermato che l’unica cosa che va ribadita è: “Non dovevano partire”. “Di fronte a tragedie di questo tipo non credo che si possa sostenere che al primo posto ci sia il diritto o il dovere di partire (…) in questo modo”, ha detto. L’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice ha affermato che “la responsabilità dell’ennesima stage dei migranti è della politica italiana ed europea”. “Piantedosi ha ribaltato la colpa sulle vittime – ha detto – Bisogna invece chiarire se ci sono state gravi omissioni di soccorso”.

“La lotta ai trafficanti è la foglia di fico delle politiche europee che vogliono bloccare la mobilità delle persone” ci racconta Luca Rondi, giornalista e co-autore di Respinti. Le “sporche frontiere” d’Europa, dai Balcani al Mediterraneo. La funzione politica di queste figure, infatti, non è una novità per i discorsi sull’immigrazione della destra italiana. “Nel novembre 2022, Meloni era tornata su questa retorica degli scafisti individuandoli come unico nemico e unico elemento su cui intervenire”, racconta Rondi. “La premier aveva detto riferendosi all’Europa: ‘Si potrebbe scegliere di isolare l’Italia, io penso che sarebbe meglio isolare gli scafisti’”. Ma la lotta alla migrazione irregolare per il governo Meloni si riferisce a un fenomeno che va contestualizzato.

Quello dei cosiddetti scafisti è un tema controverso. Per Luca Rondi la figura del trafficante è qualcosa di “politicamente spendibile” perché chiunque si dissocerebbe dalle azioni criminali di chi usa violenza e coercizione contro altre persone. Come emerge dal report pubblicato da Arci Porco Rosso lo scorso gennaio, però, i presunti scafisti sono spesso persone migranti a loro volta, che alla partenza vengono obbligate a condurre la nave o persuase con uno sconto sul viaggio. Il profilo del trafficante si costruisce laddove la domanda di solidarietà non riesce a incontrare l’offerta sul territorio del Paese ospitante. Quando non si garantisce “alle persone di muoversi in maniera regolare e sicura e quindi le si costringe in qualche modo ad accettare le offerte di chi lucra sulla loro vita e gli garantisce qualche possibilità in più di passare”. Ma quando si parla di navi in difficoltà nelle acque mediterranee il tema non è più quale approccio di politica migratoria preferire. “Il salvataggio in mare è un dovere costituzionale”, dice Rondi, “un dovere stabilito nei trattati internazionali, che ha a che fare col rispetto dei diritti umani e non col tema della mobilità in generale”.

La stretta alle ong ostacola i soccorsi in mare

“Quello che bisogna fare è cambiare narrazione”, afferma Alessandro Rocca, co-fondatore della ong ResQ che si occupa di salvataggi in mare. “Qui non stiamo parlando di migranti ma di naufraghi”. Tutte le convenzioni internazionali del diritto del mare prevedono che qualsiasi imbarcazione, sia essa una ong, una nave militare, o un peschereccio, ha il dovere di prestare soccorso. Chi è in pericolo in acque SAR italiane dev’essere assistito dall’autorità nazionale competente, e portato “in un porto sicuro che necessariamente dovrà essere il più vicino”, aggiunge Rocco. Gli emendamenti promossi dal ministro Piantedosi al codice di condotta che si rivolge specificatamente alle navi delle organizzazioni non governative ostacolano il lavoro di chi si occupa di salvataggi in mare. Tra le altre cose, stabiliscono che le ong debbano fare richiesta di un porto sicuro prima di partire per l’operazione di soccorso, e possano sbarcare unicamente a La Spezia o ad Ancona, porti molto a nord rispetto alle acque in cui solitamente vengono identificate imbarcazioni che solcano la rotta del Mediterraneo centrale o quella orientale che unisce le coste turche alla Calabria.

“Il ‘codice di condotta’ limita la presenza delle navi nel Mediterraneo – spiega Rocco – tra Openarms, Mediterranea, Emergency… ci sono circa sedici ong attive ma quelle operanti sono solo due o tre. Le altre sono bloccate nei porti a causa di fermi amministrativi, oppure sono ferme in cantiere, o mancano le disposizioni della Capitaneria”. La priorità dev’essere portare le persone in sicurezza. “La traversata che ha fatto la Geo Barents con le onde di sei metri è stata estremamente pericolosa, aveva più di 200 persone a bordo”, commenta Alessandro Rocca. “Una nave di quelle dimensioni ha potuto tenere. Una nave come la nostra già con onde di due metri e mezzo è in difficoltà”.

L’Italia e il diritto internazionale

Secondo Francesco Negozio, esperto in protezione internazionale e diritti umani designato da UNHCR per la commissione territoriale di Roma, l’obiettivo del governo è svuotare il Mediterraneo: “Obbligano le ong a un solo salvataggio e il porto sicuro glielo danno nel punto più lontano possibile”. Le imbarcazioni che ricevono segnalazioni di persone in difficoltà in alto mare hanno l’obbligo internazionale di prestare soccorso. Un tempo una ong che salvava venti migranti ma aveva la capacità di ospitare centinaia di persone rimaneva in acqua qualche giorno prima di attraccare, pattugliando le aree più pericolose nel caso in cui qualcun altro avesse avuto bisogno di aiuto. Con il nuovo codice di condotta la stessa ong che un tempo avrebbe soccorso centinaia di persone ora salva al massimo “venti persone nel giro di due settimane”.

Le modifiche al codice di condotta sono, per le opposizioni e le associazioni impiegate nel salvataggio e nell’accoglienza, una forma di “criminalizzazione della solidarietà”. In un comunicato l’Associazione per gli Studi giuridici sull’Immigrazione ha specificato che l’Italia non ha “alcuna necessità di alimentare irregolarità ed emarginazione”, ma che si deve impegnare per “garantire una maggiore tutela e inclusione a coloro che cercano protezione sul territorio nazionale ed europeo”. Per questo aveva richiesto di “abrogare il decreto legge 1/2023 e impedire modifiche legislative discriminatorie”.

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