In Italia, su 50 suicidi, uno avviene in carcere. Ogni mille persone però solo una è in carcere. A evidenziare questi dati è Doriano Saracino, Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Liguria, che martedì 21 febbraio, a Torino, ha partecipato all’incontro “Il fenomeno dei suicidi in carcere: un’emergenza tragica e un grido d’allarme”. Una conferenza in cui è stato presentato lo studio “Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari”, curato dall’Unità Privazione della libertà in ambito penale e da cui emerge che il numero di chi sceglie di togliersi la vita nelle case circondariali è decisamente più alto della media italiana.
Il presidente della Camera penale del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta Roberto Capra sottolinea che in Piemonte, dal 2019, c’è un piano regionale che regola la situazione delle case circondariali: ciascun istituto, in accordo con l’amministrazione penitenziaria e con l’Asl regionale, ha sviluppato dei protocolli operativi per prevenire e gestire l’evento suicidario. Ma questo piano non basta ad affrontare il problema. Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, sottolinea un altro dato: nel 2022 sono state 214 le morti nelle carceri italiane. 85 sono state per suicidio. Ma 32 decessi sono avvenuti per “cause da accertare” o “cause accidentali”. E gli accertamenti su questi ultimi casi spesso riconducono ad atti suicidari. Nel 2023, i suicidi sono già 6.
Troppo spesso vengono date delle risposte superficiali quando si indagano le cause di queste morti: il degrado, il sovraffollamento, il caldo. Problemi concreti da risolvere, ma che non bastano a spiegare l’emergenza suicidi. Il numero dei casi è quasi raddoppiato nel giro di 10 anni: prima del 2012, i casi erano in media 44 all’anno. Emilia Rossi evidenzia un’altra percentuale va contro le spiegazioni più diffuse: nel 2022, 59 persone su 85 — il 59% dei casi — si sono tolte la vita entro sei mesi dall’ingresso in carcere. Dieci persone si sono tolte la vita a 24 ore dall’inizio della reclusione. Si tratta di tempistiche troppo brevi per poter ricondurre il gesto dei detenuti alle condizioni degli istituti penitenziari. In più, 28 persone provenivano da precedenti tentativi di suicidio, 24 erano sotto stretto regime di sorveglianza e 11 avevano patologie di tipo psichico.
Rita Russo, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, punta i riflettori una problematica diffusa: negli istituti penitenziari ci sono soggetti invisibili, che vengono registrati “meccanicamente” — si inseriscono in un database, si registrano le impronte digitali — ma che, di fatto, rimangono nascosti.
Questo dovrebbe essere uno degli aspetti su cui lavorare: restituire la dignità ai detenuti in quanto persone. A questo, si lega una prospettiva sempre più diffusa nelle carceri: la perdita delle aspettative nel futuro da parte dei detenuti. “Molti si tolgono la vita perché non sanno cosa li aspetta fuori. Hanno paura dell’esterno molto più di quanto possano aver avuto paura dell’interno. Siamo tutti coinvolti — sottolinea Emilia Rossi —. Non ci sarà nessuna riforma Cartabia, nessuna pena sostitutiva, nessuna giustizia ripartiva. Non ci sarà nulla, se la società non si darà da fare per offrire a chi lì dentro le possibilità per tornare fuori senza essere emarginato”.