Il calcio, come ogni sport, dovrebbe essere prima di tutto inclusione. Un valore ineludibile che troppo spesso viene negato, almeno temporaneamente, a diversi ragazzi. Come si può spiegare a un bambino di 10/12 anni che non può giocare con i suoi compagni perché la macchina burocratica glielo impedisce? Una situazione scomoda in cui si trovano moltissime squadre di calcio giovanili, a tutti i livelli. Oggi che il tema dello ius soli sportivo sta tornando alla ribalta sono proprio le società dilettantistiche a richiedere un intervento normativo sul tema. “Serve un atto del governo o della Federazione, – spiega Luigi Riccetti, presidente dell‘Asd Cenisia, una delle storiche realtà del calcio giovanile torinese – il concetto di fondo è che i bambini hanno diritto a fare sport, almeno fino ai 12-13 anni bisogna farli giocare comunque”.
Ciò non sempre accade. Malgrado dal 2016 il nostro Paese abbia introdotto uno ius soli sportivo limitato, che permette ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri di essere tesserati nelle squadre giovanili, ma non li rende eleggibili per le selezioni nazionali, gli ostacoli si presentano soprattutto per chi è giunto da poco sul nostro territorio. “Il problema riguarda principalmente i primi tesseramenti, – racconta Amalia Porta, dirigente del Pozzomaina – la procedura è complicata e la Federazione non è collaborativa. L’anno scorso ci è capitato di avviare le pratiche per mettere sotto contratto un ragazzo di origine marocchina a luglio 2021 e la pratica è stata accettata solo a novembre 2021, quattro mesi dopo. Nel mentre tutti i tentativi di metterci in contatto con la Figc per risolvere il problema cadevano nel vuoto”.
Tra le criticità più comuni, c’è la difficoltà a ottenere le autorizzazioni ai tesseramenti da parte di chi esercita la patria potestà sugli atleti, condizione questa obbligatoria per legge. Tra documenti che mancano e vincoli amministrativi, per molti di loro il contratto rimane per tanto tempo una semplice illusione. “Diventa un nostro problema morale, è dura dire a un bambino che non può giocare con i suoi compagni: in questi casi cerchiamo di pagare di tasca nostra l’assicurazione per farli almeno allenare, ma comunque la domenica sono costretti a rimanere fuori”.
Eppure snellire le procedure non sarebbe nemmeno così difficile: lo dimostra la lettera con cui il presidente federale Gabriele Gravina ha permesso alle scuole calcio affiliate il tesseramento rapido dei bambini in arrivo dall’Ucraina dopo lo scoppio della guerra. Iniziativa nobile, ma perché non estenderla a tutti senza creare distinzioni tra i bambini? In questa direzione si muove l’appello di alcune società dilettantistiche, la speranza è che non rimanga inascoltato.