Per il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, la diffusione di notizie false ha rappresentato un volano elettorale in piena regola. In un Paese caratterizzato da un sistema mediatico disastrato, sempre meno abituato alla fruizione dei giornali tradizionali (la distribuzione dei tre principali quotidiani è pari a un milione e mezzo di copie giornaliere, a fronte di una popolazione di 213 milioni di abitanti), la disinformazione corre veloce su WhatsApp e Telegram, app utilizzate da platee ampissime, per un totale di 210 milioni di utenti.
Proprio lo spazio dei servizi di messaggistica istantanea ha agito da catalizzatore dell’ascesa del leader del Partido Social Liberal. Durante la campagna elettorale del 2018, le chat erano bombardate dai contenuti diffusi dal governo, grazie a un gruppo di aziende “collegate” a Bolsonaro che si occupavano di arruolare – su precisa disposizione del candidato presidente, secondo quanto ricostruito da Folha de São Paulo – società capaci di condurre operazioni di diffusione in massa di contenuti propagandistici a suo favore. Secondo il New York Times circa 120 milioni di utenti brasiliani su Whatsapp sono stati sommersi di spam per mesi. Sull’app di messaggistica sono arrivate informazioni false su come votare e video e immagini che diffondono fake news. La chat di messaggistica ha anche considerato di apportare modifiche al modo in cui funziona in Brasile, tra cui l’imposizione di limiti più stretti sul numero di messaggi che possono essere inoltrati.
Queste strategie sono state coordinate da una cabina di regia composta da una decina di consulenti vicinissimi al presidente (tra cui spicca la figura di Edoardo, figlio di Bolsonaro, avvocato e deputato federale dello Stato di San Paolo) che si occupano di modellare la narrazione degli eventi allo scopo di distruggere la reputazione di alcuni personaggi pubblici, soprattutto membri dell’opposizione e giornaliste. Il fine ultimo è quello di esporre parte della popolazione brasiliana a una realtà parallela, alimentata da questa “macchina dell’odio”. Proprio i meccanismi che animano l’hate cabinet di Bolsonaro sono stati al centro dell’incontro Il Brasile di Bolsonaro: l’attacco ai media indipendenti, a cui hanno presenziato Patrícia Campos Mello, editor-at-large ed editorialista del Folha de São Paulo e commentatrice per l’emittente TV Cultura, e Daniela Pinheiro, una delle più note giornaliste investigative e narrative del Brasile, intervistate da Barbara Serra durante la quarta giornata del Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia.
Nel 2019, Pinheiro – una delle voci più critiche dell’attuale governo – ha scelto di dimettersi da Época, la rivista che dirigeva, a causa di un contrasto con il gruppo editoriale nato dalla pubblicazione di una nota di scuse nei confronti di Bolsonaro: “Mi sono dimessa assieme ad altre 10 persone e ho patito moltissimo l’assenza di solidarietà da parte dei miei colleghi”, ha detto. Pinheira è stata oggetto di una macchina del fango: “Hanno postato sui social una foto di mia figlia, che è stata diffusa a valanga da alcuni bot: un’offensiva messa in atto ad arte per minare il mio lavoro come giornalista”.
Anche Patricia Campos è una giornalista invisa al governo: una sua inchiesta ha portato WhatsApp ad ammettere che la propria piattaforma è stata utilizzata per degli illeciti nelle elezioni del 2018. Il presidente Bolsonaro, per infangare la sua figura e la sua etica lavorativa, ha fatto intendere che avesse ottenuto le sue fonti attraverso favori sessuali. Per questo motivo – tramite una sentenza storica – il presidente Bolsonaro si è visto costretto a pagare una somma a Campos per averla diffamata. Campos ha vinto una causa simile nei confronti del figlio del Presidente, il quale ha fatto allusioni simili a quelle del padre. “Il suo caso – ha spiegato durante l’incontro – è applicabile anche ad altri paesi. Il Brasile è solo un esempio ma, in tutto il mondo, chi si occupa di informazione viene linciato virtualmente e non; in particolar modo le giornaliste vengono discreditate per il loro essere donne”.
La macchina della propaganda di Bolsonaro ha qualche punto in comune con la Bestia, la fabbrica di popolarità social della Lega ideata dallo spin doctor Luca Morisi, fondata su un software collaborativo per l’automazione delle attività sui social. Anche nell’analisi dell’ascesa elettorale di Salvini, la Bestia ha esercitato un ruolo cruciale, addomesticando un team di una quarantina di persone pagate per intercettare i sentimenti della rete, influenzare le interazioni degli utenti e fomentare la loro emotività. Ma la novità stava nel progetto finale, ossia occupare lo spazio di malcontento causato dalla crisi economica in Italia e dall’avversione di una parte di cittadini alle politiche europee. La Bestia è servita ad allargare l’elettorato del leader della Lega, favorendo la sua trasformazione da rappresentante del nord ad “amico” di tutti gli italiani. In maniera simile, il “gabinetto dell’odio” ha presentato Bolsonaro come l’unico rimedio possibile alla corruzione dilagante in un paese scosso da una delle inchieste giudiziarie più rumorose degli ultimi anni, la “Java Lato”, che ha portato alla luce un sistema di tangenti all’interno dell’azienda petrolifera statale Petrobras grazie alla dichiarazioni del pentito Alberto Youssaf e costretto al carcere Luiz Inácio “Lula” da Silva.
Per Pinheiro, il timore principale è che l’apparato di propaganda brasiliano possa aver attecchito a una profondità tale da poter trasformarsi in una nuova Capitol Hill: “Se Bolsonaro perderà, probabilmente molte persone non riconosceranno il risultato elettorale, perché l’hate cabinet parlerà di elezioni falsate”.