Realtà, finzione e propaganda sono elementi che spesso si mescolano all’interno del racconto mediatico degli avvenimenti del mondo. In particolar modo, la pioggia di notizie che si rovescia sull’opinione pubblica durante una guerra – come nel caso dell’invasione dell’ Ucraina – non solo può avere effetti negativi sull’informazione delle persone, ma anche sull’andamento del conflitto stesso. Fake news o disinformazione sono armi particolarmente insidiose nelle mani della propaganda di guerra: anche quando la propaganda si traveste da fact-checking.
“In questo periodo stiamo affrontando l’agghiacciante lavoro di sedicenti testate di fact-checking, come ‘War on Fakes’ e altri siti che fingono di fare controllo sulle informazioni ma che in realtà portano avanti la propaganda russa – sottolinea Tommaso Canetta, vicedirettore di Pagella Politica -, Questi siti non hanno i requisiti di indipendenza richiesti dai network internazionali di fact-checking e, di fatto, riportano le posizioni ufficiali del governo russo. Mescolano disinformazione con elementi reali, dando così l’illusione di un racconto verosimile. Un’operazione fatta in diverse lingue che ha l’obiettivo di diffondere propaganda e di seminare il dubbio, cercando di favorire diffidenza verso altri canali di informazione”.
Una sensazione che si insinua in diverse frange dell’opinione pubblica, in particolare sui social media, ambiente prediletto per fake news e disinformazione. “Il nostro lavoro di fact-checking si basa su strumenti più o meno complessi ma molto utili che ci permettono di verificare la veridicità di video e foto, attraverso l’analisi dei luoghi e l’individuazione di eventuali contraffazione. Un esempio è la distorsione della notizia di una donna incinta fotografata in fuga durante il bombardamento dell’ospedale pediatrico di Mariupol. I media russi avevano riportato che la donna non era in realtà incinta e che era una influencer, pagata dal governo Ucraino. In quel caso non è stato difficile fare il fact-checking di quella notizia falsa, è bastato controllare il suo profilo Instagram per capire che la donna aspettava davvero un bambino, che poi è anche nato”, continua Canetta.
A parte l’uso di tecniche e strumenti quasi forensi per l’analisi delle immagini, anche chi non si occupa di fact-checking può adottare delle buone abitudini per verificare la veridicità delle notizie e dei contenuti che circolano in rete. “Prendiamo ad esempio il racconto del massacro di Bucha. Per capire se la notizia è vera – prosegue Canetta -basta incrociare diverse fonti, video, testimonianze riportate di persone sul luogo. In questo caso è particolarmente semplice intuire che si tratti di un contesto reale, data la mole di contenuti di testate qualificate sul fatto. Però questo lavoro di confronto si può attuare per tutte le notizie”.
Immerso in un panorama mediatico caratterizzato dalla rapidità delle informazioni, il lavoro di fact-checking – secondo Canetta – deve in ogni caso essere frutto di uno studio approfondito, che non può sempre rispondere con tempestività alla diffusione delle fake news: “Questa esigenza di velocità esiste, ma preferiamo uscire con i nostri lavori con più calma, così da renderli più approfonditi. Il messaggio che vorrei dare è che chiunque può sfuggire dalla disinformazione e può farlo, prima di tutto, dubitando delle notizie che vede o legge, soprattutto se non sono riportate da testate qualificate. Quello è un primo passo che tutti possono fare per liberarsi dalle fake news”, conclude Canetta.