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Contagi, vaccini e ripresa: l’Italia a due anni dal primo lockdodwn

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Le file ai supermercati, la caccia disperata ai generi di prima necessità, la sensazione di smarrimento mescolata con la rabbia di restare inermi davanti al cinismo delle situazioni che non puoi controllare. Potrebbe essere il racconto della quotidianità in Ucraina, dilaniata dalla guerra decisa a tavolino dalla Russia di Putin, e invece sono immagini ancora vive nella mente degli italiani che due anni fa – il 9 marzo 2020 – rinunciavano alla libertà e affrontavano il lockdown. Il primo, in ordine di tempo, di certo non l’ultimo causato da una pandemia che – per chi non ne conosceva il significato – fino a quel momento poteva quasi sembrare una parola gentile.
“Sto per firmare un provvedimento che possiamo sintetizzare con l’espressione ‘io resto a casa’” aveva detto, in un messaggio tv a reti unificate, l’ex Premier Giuseppe Conte.

L’incedere del Covid-19, nemico invisibile ma capace di permeare anche le più robuste resistenze, ha costretto gli italiani a concepire un nuovo modo di vivere, rinunciando al superfluo e catalogando i bisogni in base al consentito dalle autocertificazioni. Una, due, tre settimane tra coprifuoco e smartworking. Dal giallo all’arancione e poi al rosso, come in un gioco di colori per bambini che, in realtà, gioco non è stato. Il pomeriggio, tutti in balcone a cantare e davanti alla televisione per conoscere gli ultimi dati sul contagio, forniti dal Ministero della Salute, fantasticando su cosa fare quando tutto sarebbe finito. Un modo per smorzare la tensione, oltre che per sentirsi vivi in un momento in cui le certezze vacillavano ogni volta che la curva saliva e positivi, morti e ricoverati in terapia intensiva aumentavano.

Per chi non ha mai detestato stare in casa, e ne ha apprezzato la comodità senza limiti e senza fili, è stata comunque una dura prova. Per chi, invece, non è mai stato eccessivamente abituato tra le mura amiche, l’insostenibilità della situazione ha portato a cambiamenti radicali – anche nei rapporti interpersonali – e ha lasciato strascichi ancora da curare. Piazze vuote, stadi vuoti, locali vuoti, con buona pace di chi aveva investito e si è ritrovato con il cerino in mano e una montagna di debiti calmierati (in parte) dagli aiuti del Governo. Oggi, a due anni dall’inizio delle chiusure forzate, sembra passato un secolo e invece le limitazioni – seppur minori per grado di sopportazione – in alcuni casi persistono. Le prospettive, però, sono incoraggianti: il 31 marzo cesserà lo stato di emergenza (invocato ed emanato proprio due anni fa) e la violenza del virus è diminuita. Merito di una coscienza ritrovata, nonché di una campagna vaccinale che, tranne che per gli strenui sostenitori della purezza dell’anima che fa il paio con quella del sangue, ha coperto pressoché tutta l’Italia.

I dati possono aiutare a comprendere il cambiamento di percezione del Covid-19 e il lento, ma continuo, miglioramento che sta portando a un ritorno alla normalità: il 9 marzo 2020 i positivi erano 9.172, con 4.316 ricoverati (di cui 733 in terapia intensiva) e 463 morti.

Ieri i positivi sono stati 60.191, con 9.368 ricoverati (592 in terapia intensiva) e 184 morti. Numeri più alti ma mortalità sensibilmente diminuita e, soprattutto, una malattia di cui adesso si conoscono le specifiche e contro cui si può intervenire in maniera mirata.

I prossimi passi del Governo serviranno per restituire agli italiani una vita che, due anni fa, pareva la normalità e invece è cambiata nella quotidianità e nelle scelte. Consapevoli di ciò che è stato e delle ferite che ha lasciato, ritornando al passato per disegnare il futuro.

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