“Il rumore dei pesanti scarponi dei soldati sul selciato”. Mi risponde ancora prima che io possa finire di chiederle che cosa ricordi della guerra. Gli occhi si gonfiano di lacrime, mentre le parole fuoriescono come un flusso di coscienza. Non le serve del tempo per pensare, per elaborare: quelle immagini sono impresse nella sua memoria come un timbro indelebile. Eugenia Manfredi, 87 anni, aveva solo 9 anni quando le truppe tedesche e fasciste, al comando di Umberto Bertozzi, raggiunsero il luogo in cui abitava: Forno. È un piccolo paese di montagna, in provincia di Massa-Carrara, incastonato tra le Alpi Apuane e attraversato dal fiume Frigido.
Era il giugno 1944, precisamente la notte tra i 12 e il 13, quando i nazi-fascisti saccheggiarono e incendiarono le case del paese, raggrupparono gli abitanti in strada per lunghe ore e li trattarono come bestie. La resistenza dei partigiani fu inutile.
“I tedeschi entrarono nelle nostre case, ci chiesero di cucinare per loro delle uova, mentre mia madre piangeva disperatamente”, racconta. Eugenia abitava con i genitori, la nonna e uno zio di 19 anni, Michele Ricci. La notte del giugno 1944, Michele insieme ad altri amici si era nascosto in un’intercapedine del muro di casa: sapeva che i tedeschi, guidati dai fascisti, stavano effettuando i rastrellamenti nelle abitazioni. “A un certo punto, si ricordò che tra i soldati di quella spedizione c’era un suo vecchio compagno di scuola – continua –. Così decise di abbandonare il nascondiglio e di raggiungere l’amico per un saluto”. Il giovane, in realtà, faceva parte di una truppa nazi-fascista. “A quel soldato non importò nulla di Michele e, non appena lo vide, lo portò via insieme ad altri ragazzi”, racconta. I giovani fornesi vennero trasportati nella piazza antistante la chiesa di Sant’Anna, sulle sponde del fiume. Tra questi, c’era anche Michele. I soldati li fecero posizionare gli uni a fianco agli altri con il viso rivolto verso il fiume e, alle loro spalle, una schiera di militi armati li fucilò. Durante la rappresaglia, passata alla storia come “Eccidio di Forno”, morirono 68 giovani. Mentre una cinquantina di uomini adulti fu deportata nei campi di concentramento in Germania.
“In mezzo a quella catasta di corpi senza vita, c’era anche mio cugino Franco Del Sarto, che fingendosi morto e nascondendosi tra i cadaveri sopravvisse per miracolo” ricorda.
Nel suo racconto, Eugenia riporta anche la testimonianza di sua nonna Elvezia Alberti, madre di Michele. “Non appena i paesani videro colui che aveva tradito i coetanei portandoli a morire di fronte alla chiesa, tutte le madri scesero in piazza. Alcune inveivano contro di lui, altre gli scagliavano addosso sassi, oggetti, tutto quello che riuscivano a trovare per terra. Elvezia però non uscì di casa. Quando le chiesero perché, rispose: ‘Perché da qualche parte c’era una madre. E quella madre, come me, avrebbe pianto per suo figlio’”.
Dentro al rumore assordante degli scarponi nazisti, che Eugenia ricorda con così tanta precisione, c’era il dolore. C’era l’orrore di una violenza spietata e disumana.