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Venture Capital Monitor: in Italia crescita degli investimenti, ma il divario con gli altri paesi è ampio

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L’innovazione gioca un ruolo sempre più cruciale nelle strategie aziendali, soprattutto in tempi di crisi. Nella assimilazione dei processi innovativi, però, sono cruciali l’organizzazione e, in particolare, il capitale. In un contesto di questo genere emerge il ruolo dell’investimento in capitale di rischio e del venture capital (VC). Le attività più altamente innovative sono quelle, naturalmente, più soggette a rischi, meno sicure per gli investitori, di conseguenza più ci sono le possibilità di investire, più probabilità ci sono di produrre innovazione e crescita.
In Italia, però, gli investimenti sia iniziali a progetti o start up, sia follow on (successivi l’investimento iniziale) sono inferiori rispetto ad altri paesi europei. Dato però lo stretto legame tra capitale di rischio e innovazione, ragionare sui venture capital permette di riflettere sulle condizioni di un sistema economico più in generale. “Nell’ultima legge di bilancio si è cercato di recuperare”, spiega la prof.ssa Anna Gervasoni, direttore generale AIFI durante la presentazione del X Rapporto di ricerca Venture Capital Monitor al grattacielo Intesa SanPaolo di Torino. “Dopo un calo degli investimenti nel 2017”, continua, “il 2018 ha visto una sostanziale crescita, soprattutto verso una fascia strategica per il settore: gli spin off universitari”.
Se nel 2017 componevano il 4% del capitale investito, nell’anno passato invece hanno raggiunto il 12%, anche grazie al continuo rafforzamento degli incentivi fiscali verso venture capital. Nel 2019, poi, si è stabilito un vincolo di bilancio per i PIR (Piani Individuali di Risparmio). Al lancio di un PIR si dovrebbe mettere il 3,5% in un VC, come legifera il Decreto 30 aprile 2019.

La strada verso i migliori paesi europei, però, è ancora lunga e tortuosa. Se nel triennio 2016 – 2018 in Germania si sono investiti 4,1 miliardi di euro, in Italia abbiamo toccato i 750 milioni, meno del 20%. Numeri italiani che impallidiscono maggiormente al confronto con Francia (6,7G) e Regno Unito (8,9G). Si dovrà lavorare non solo sui capitali, ma anche sul numero di operatori: in Italia infatti solo 25 contro i 160 tedeschi. I trend però lasciano speranze. Nei primi cinque mesi del 2019 abbiamo raggiunto la quota globale del 2018 (165M). I punti dove, secondo il rapporto, si deve lavorare sono chiari: la nascita di nuovi operatori VC consentirebbe capitalizzazioni di venture esistenti, con maggiori capitali da investitori istituzionali. Questo porterebbe a uno sviluppo dell’ecosistema anche grazie all’incentivazione a favore di investimenti in fondi di private capital.

Secondo i dati del Venture Capital Monitor, gli investimenti si sono distribuiti in maniera omogenea tra società alimentari, farmaceutiche, di healthcare. Fetta maggiore della torta, ovviamente, in aziende ICT (più del 35% degli investimenti del 2018). All’interno, poi, superano il 40% le web e mobile application.
Dal punto di vista geografico, se il nord e la Lombardia confermano la posizione di leadership, il 2018 ha visto un calo del centro Italia ma una risalita del sud.
Gli operatori, poi, acquisiscono mediamente il 30% delle società. Più raro invece (16% dei casi) che si acquisisca la proprietà (>50%).
I rendimenti, però, non sono resi noti. “Sono numeri che non ci renderebbero orgogliosi”, confessa Anna Gervasoni. Complesso, però, stabilire criteri statistici e trovare un campione base significativo. “Al momento mancano indicatori più solidi. Siamo in un settore dove un’operazione di successo può essere così grossa da oscurare altre operazioni, sfalsando la media”, conclude.

 

MARCO ZAVANESE

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