Un profilo moderato, quasi istituzionale. Sicuramente lontano dai toni accesi di altre occasioni, su temi caldi: immigrazione, ong. Ma senza rinunciare a stilettate dure. Come quando attacca, accusando chi sta al governo di prendere soldi da chi fa business sull’immigrazione. Luigi Di Maio si siede per essere intervistato di prima mattina, reduce dalle recenti polemiche sul presunto legame tra Ong e scafisti. È a Torino per la presentazione del libro di Massimo Franco “L’assedio” e per il Salone del libro. In una lunga intervista il vicepresidente della Camera dei Deputati chiarisce diversi punti controversi nel programma del Movimento 5Stelle: dall’immigrazione alla legge elettorale, passando per l’Europa e le fake news.
Partiamo dall’immigrazione. Lei ha proposto di chiudere la rotta del Mediterraneo. Come?
Dobbiamo stabilizzare la Libia e l’Europa deve essere promotrice di una grande conferenza di pace che coinvolga le tribù e i sindaci libici, entità che hanno ancora dei riconoscimenti dalle comunità locali. L’Unione europea deve poi istituire dei punti di primo approdo nei Paesi di provenienza dove raccogliere le richieste di espatrio, creando un filtro a monte che trattenga chi non ha diritto a venire in Europa, ma anche stringere degli accordi con i Paesi di provenienza invece di preferire accordi bilaterali. Il problema è l’interlocutore che viene scelto.
E come gestire l’accoglienza?
C’è un conflitto di interessi tra classe di governo e chi gestisce le realtà legate all’accoglienza. Io sono sicuro che la maggioranza delle cooperative e associazioni che aiutano nell’accoglienza siano in buona fede, però ci sono anche dei grumi di potere, come abbiamo visto in Calabria, e prima ancora con Mafia capitale, che creano business sui migranti. L’82% dei migranti che arriva in Europa approda in Italia. Ma non è solo una questione di numeri, conta anche la percezione degli italiani che non dobbiamo sottovalutare. Oggi abbiamo nove milioni di persone sotto la soglia di povertà relativa e 17 milioni a rischio povertà.
Anche i partiti politici hanno una responsabilità nell’alimentare questa percezione, non crede?
Ci sono stati due tipi di speculazione sull’immigrazione: economica e politica. Se chi sta al governo prende i soldi da chi fa business sull’immigrazione non si risolverà mai il problema. D’altra parte ci sono partiti che non possono trovare una soluzione all’immigrazione perché hanno fatto di questa il core business della loro politica. Se si risolvesse il problema, scomparirebbero loro come partiti.
Lei ha detto di sentirsi europeista, ma siete alleati di Ukip. Come si conciliano queste scelte?
Ukip è un alleato tecnico. I gruppi di alleanza in Europa si formano anche con il free vote, quindi ognuno può anche votare per sé. Se si controllano i voti dati si troveranno più comunanze con partiti che sono legati al concetto di trasparenza, riforma e sburocratizzazione dell’Unione europea. Siamo sempre percepiti come un nemico dell’Ue, e questa ovviamente è una cosa che dobbiamo cambiare. Ma abbiamo 4 miliardi e mezzo di spesa a fronte di 91 milioni di contributi europei per quanto riguarda le spese per l’accoglienza. L’Unione non è immodificabile ma si deve evolvere: innanzitutto nella governance, il parlamento deve prendere più potere. D’altra parte dobbiamo necessariamente riformare alcuni trattati che non contengono pregiudizi contro l’Italia, ma sono anacronistici. La posizione del M5S sull’Unione Europea è estremamente critica, ma non siamo affascinati dall’idea di un’“Italexit”. Vogliamo restare nell’Unione Europea, ma dobbiamo essere sinceri. Non si può fare gli europeisti con le frontiere degli altri.
E il referendum sull’euro?
Dividere l’Unione Europea dalla politica monetaria resta un tema presente nel nostro programma. Mettiamo di nuovo al centro dell’Euro la democrazia. Permettiamo ai Paesi di avere la facoltà di uscire dall’Euro. Si tratterebbe di un referendum che avrebbe bisogno di un anno solo per essere indetto, a causa della lunga procedura costituzionale: l’Unione Europea avrebbe occasione di mettere in discussione molti punti, ad esempio i trattati che riguardano i vincoli economici e anche gli accordi che riguardano l’Euro.
Non pensa, nonostante tutti i suoi difetti, che l’Euro tuteli l’Italia dalla fluttuazione dei mercati?
Abbiamo visto che l’Italia, soprattutto tra il 2011 e il 2013, è stata vittima degli sbalzi di mercato. L’Eurozona e l’Unione Europea vanno riformate. Secondo me, essere contrari al cambiamento significa essere ideologizzati. Mettere invece in discussione alcune regole ha senso in un’eurozona in cui oggi tutta la ricchezza nazionale che ha perso l’Italia in questi anni si è trasferita nell’economia tedesca.
Le fake news stanno diventando di rilevanza centrale anche in Italia dopo essere cresciute di importanza con le elezioni americane. Qual è la sua posizione?
Ci sono giornalisti italiani che non verificano le notizie e quindi diffondono fake news. Quando esse vengono diffuse è giusto denunciarle sia pubblicamente con dichiarazioni, sia con delle querele. E non si tratta di una violazione della libertà di stampa, significa semplicemente tutelarsi. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, non voglio difendere Trump, ma il New York Times ci ha accusato di un’epidemia di morbillo in Italia, il che fa ridere, perché avrebbe dovuto accusare il ministero della Salute, non Grillo che nel ’98 aveva fatto una battuta sui vaccini.
Dunque la soluzione potrebbe essere un tribunale popolare che giudichi la stampa, come da voi proposto?
Partendo dalla proposta di un’agenzia che, giudicando le notizie online, bloccasse le fake news, il M5S ha risposto estendendo l’idea anche alla stampa tradizionale. Il punto centrale è però l’attività dell’ordine dei giornalisti: continua a portare avanti il tema della deontologia? Se c’è un problema di notizie false online, esso esiste anche per quanto riguarda la carta stampata. Quando però si denuncia un giornalista perché con una notizia completamente inventata danneggia la reputazione di qualcuno, tutti dicono che si sta ledendo la libertà di stampa.
Un bilancio sugli anni da vicepresidente. Quali leggi mancano in Italia?
Non abbiamo bisogno di più leggi, ma di una legge che elimini un po’ di leggi. Dopo aver riorganizzato le materie esistenti possiamo lavorare su nuovi provvedimenti: principalmente devono essere economici, serve una legge sul reddito di cittadinanza per contrastare la povertà. Questi quattro anni e mezzo sono stati un’esperienza incredibile. Ho iniziato a presiedere l’Aula a ventisei anni. È stata una sfida nella sfida perché già essere deputato non era scontato, poi ho dovuto gestire una carica istituzionale mentre facevo parte della principale forza politica di opposizione del Paese, mettere insieme queste due cose non è stato semplice.
Ha dei rimpianti?
Mah, si fanno a fine mandato. Adesso non ho neanche il tempo di pensare ai rimpianti.