Il Giro d’Italia si avvicina al Piemonte. La cronometro di Montefalco ha ribaltato la classifica, vestendo Tom Dumoulin di rosa. E sabato si arriva a Oropa.
Inauguriamo oggi lo Speciale Giro100. Fino a sabato, un appuntamento al giorno sul nostro sito, una chiacchierata quotidiana con protagonisti del ciclismo italiano. L’avvicinamento alla tappa biellese che promette di indirizzare il Giro del centenario comincia con l’intervista a Marco Pastonesi, firma storica del giornalismo sportivo, a lungo editorialista de La Gazzetta dello Sport. La scorsa settimana era a Teheran, all’International Book Fair, dov’è rimasto stupito “dall’interesse istintivo e appassionato dei ragazzi iraniani verso la cultura italiana, anche per lo sport. Forse perché è un linguaggio universale, una grammatica che tutti conoscono e riconoscono: saper trattare lo sport attraverso le storie è sempre affascinante, a qualsiasi latitudine e per persone di ogni religione”.
Che cosa significa raccontare lo sport oggi, con i computer che possono scrivere al posto nostro la cronaca degli eventi?
Vuol dire viaggiare dentro uomini e donne, significa raccontare storie altrimenti invisibili. Nel ciclismo il 95% degli articoli riguarda i primi tre della classifica, ma poi ci sono tutti gli altri. Sono romanzi formidabili, inediti, che rischiano di perdersi. Secondo Neruda “lentamente muore chi non capovolge il tavolo”: io capovolgo l’ordine d’arrivo e mi occupo preferibilmente degli ultimi.
C’è un momento di corsa che le fa più piacere ricordare?
Il ciclismo è attesa: si aspetta il passaggio dei corridori, quell’attimo in cui i ciclisti sfrecciano, il ronzio delle catene, lo sfarfallio del colore delle maglie, quel brivido che ti ricorderai per tutta la vita. Nella mia memoria ci sono tanti luoghi, tante facce sfatte, tanti ritorni a piedi in sala stampa. Per me il momento che dà un senso alla vita e al lavoro è quando mi siedo davanti al foglio bianco, oggi alla schermata vuota del pc, e comincio a tradurre il frullare delle ruote in una storia.
In carriera ne avrà incontrati tanti, ma qual è il personaggio più matto e quale il più divertente?
Romeo Venturelli, detto Meo: un fenomeno assoluto, completamente pazzo. Si dimenticava le braghe, le bici, le scarpe: una volta partì con un paio di mocassini, andò in fuga, da solo, tutto il giorno e venne ripreso solo perché bucò. Il più divertente l’ho scoperto da poco: Franco Calvi. Il Giro del 1975 finiva sul Passo dello Stelvio, immagina la crudeltà degli organizzatori. Calvi arrivò ultimo ma sul traguardo alzò le braccia al cielo: era arrivato, ce l’aveva fatta.
Qual è la storia più incredibile a cui le è capitato di assistere?
Zoncolan 2003, si saliva dal versante meno impegnativo. Un corridore ucraino, Mikhail Khalilov, che abitava in Italia in un paese in provincia di Piacenza che apparentemente non ha molto in comune con il ciclismo, visto che si chiama Rottofreno, già all’inizio della salita finale era nettamente in ritardo. Stava male, soffriva di mal di stomaco, e infatti arrivò oltre tempo massimo. All’arrivo lo aspettai e gli chiesi perché volle fare dieci chilometri sapendo di non arrivare in tempo. “Mi avevano parlato di questo balcone con vista su Venezia e Adriatico”, perché dalla cima dello Zoncolan, in una giornata di sole, si vede l’Italia. Ecco, questo romanticismo di Khalilov mi ha conquistato.
È lui il ciclista a cui è più affezionato?
No, è Renzo Zanatti. È stato gregario di Coppi, Bartali e Magni. Dentro di sé si sentiva un vincente, e in effetti lo era. Conquistò la maglia rosa nel 1947, i primi giorni. Dopo di lui, quell’anno, la indossarono solo Bartali e Coppi: lui era quello sbagliato, il nome che suonava stonato tra i due campionissimi. Con Zanatti saremmo poi diventati amici, mi raccontava l’epopea del ciclismo dal punto di vista del popolo: uno sguardo realista, senza grandi voli pindarici, ma con il linguaggio della strada.
Sabato il giro arriva a Oropa. Che tappa sarà?
Oropa vuol dire tante cose: Pantani, la sua rimonta, quella tappa leggendaria. L’altro mio ricordo è la cronometro del 2007, la vittoria di Marzio Bruseghin, un gregario, che trovò una giornata di gloria: la Madonna fece il miracolo!
Dal punto di vista tecnico ci sono due prospettive: o i capitani tengono la tappa chiusa fino all’inizio della salita, o la corsa si divide in due con la fuga che arriva e i capitani che si danno battaglia dietro.
Nella classifica generale succederà qualcosa?
Forse ci sarà una scossina. Quintana è più forte, ma il bello del ciclismo è che ogni metro può rivelare un’insidia, un’avventura, una difficoltà, un imprevisto nel bene e nel male. Il ciclismo è mors tua vita mea, è scoperta e rivelazione. La salita di Oropa si presta a un’azione da scalatore. Nibali è un combattente, un duro, un fondista, un attaccante: sono doti che affascinano e appassionano la gente. Ce la può fare.
Parliamo di doping. I due casi prima del Giro hanno rovinato un po’ la festa, rimettendo il ciclismo sotto la lente d’ingrandimento. La situazione sta migliorando o sono le tecniche illecite a essere sempre più difficili da scoprire?
Tutte e due le cose. Il gruppo si è ripulito, credo che la stragrande maggioranza dei corridori pedalino a pane e acqua. Ma la paura che il doping evolva e lasci indietro l’antidoping c’è: alcuni risultati sembrano non logici e non razionali. Può darsi che alcuni corridori, soprattutto i più ricchi, i campioni, abbiano trovato un qualche tipo di “doping invisibile”, cioè difficile da scovare dalle analisi.
Il ciclismo rimane uno sport speciale?
Assolutamente sì, perché è l’unico che non si svolge in una scatola magica, dentro uno stadio, un palazzetto o un ring. Usa la strada come teatro: è un palcoscenico all’aperto lungo 250 chilometri, che per metà è fatto di superficie, l’altra metà di cielo. Vuol dire alto, freddo, gelo, pioggia, neve, grandine, siccità. Un teatro non solo orizzontale ma anche verticale, che sottopone i nostri attori preferiti, i corridori, ad acrobazie e a calvari.