La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Siria, una guerra destinata a durare

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“A mio avviso, la guerra in Siria durerà ancora a lungo, ormai si è creato un senso di fatalismo e di assuefazione ai bombardamenti, ci si è abituati”. Al Circolo dei Lettori, nel corso dell’incontro “Guerra mondiale in Siria” organizzato da Biennale Democrazia e moderato dal direttore di “Limes” Lucio Caracciolo, l’ambasciatore italiano in Iraq Marco Carnelos ammette come ci vorranno ancora molti anni prima che in Siria si torni a una pacificazione e a una piena stabilizzazione politica. “Il risultato della situazione attuale è frutto di decisioni di cento anni fa, quando apprendisti stregoni francesi e inglesi hanno provato a risolvere la dissoluzione dell’impero ottomano a modo loro, senza tener conto di differenze etniche e religiose.” Secondo il diplomatico, l’Occidente deve togliersi dalla testa lo schema mentale dell’ “arrivare e risolvere la situazione da solo”, senza considerare le parti in causa. Anzi, i popoli della regione saranno sempre più artefici del loro destino. “Più dei bombardamenti, la vera violenza risiede nell’incapacità di ascoltare il proprio interlocutore”.

“Se Assad fosse stato un minimo più saggio, questa guerra poteva essere evitata, con qualche riforma forse i siriani si sarebbero accontentati” spiega Francesca Borri, reporter in Siria dal 2012. Il quadro che traccia è di una Siria senza più siriani: “Non è cambiato molto da quando sono arrivata cinque anni fa. L’unica differenza, positiva, è che la maggior parte dei siriani, tra le opzioni Assad o ribelli, ha scelto di andare via”. I civili che sono rimasti, invece, racconta la giornalista, sono ormai esausti psicologicamente, soprattutto da quando è intervenuta la Russia. Bombardamenti 24 ore su 24, città come Aleppo che non esistono più. “Non ho mai pensato che più violenza, più bombardamenti, più armi potessero migliorare la situazione”.

Strettamente collegata ai fatti siriani, Carnelos delinea anche la situazione irachena, mettendo in rilievo come la sconfitta del califfato a Mosul non è sinonimo del suo definitivo declino. “Parliamo di una minaccia politica-ideologica che molte persone coltivano, una visione dell’Islam radicale che non fa prigionieri: o la pensi così o sei considerato un apostata. Una visione, tra l’altro, che ha come principale vittima i musulmani”. Oltre alle vittime, il diplomatico sposta l’attenzione anche sui profughi, evidenziando “la crisi isterica politica-mediatica italiana per decine, migliaia di alcuni poveretti che scappano da queste guerre. Il Libano ha 4 milioni di abitanti e si ritrova 2 milioni di profughi. Come reagiremmo se da noi venissero in 30 milioni?”.

Sul ruolo di corrispondente, Francesca Borri chiarisce come “il giornalista di guerra sia sempre embedded, debba appoggiarsi necessariamente a qualcuno, che ha l’interesse di portarti dove vuole che tu veda. Sono delle limitazioni alla professione, ma la bravura del giornalista è sapersi ritagliare più spazi possibili e interagire con gruppi diversi”. Rimane comunque impossibile poter raccontare la Siria nel suo complesso: “Parliamo di una regione in cui, quando si spara, non si è consapevoli se il tuo bersaglio è un nemico o meno. È possibile raccontare solo dei frammenti di quello che accade. Per questo motivo il giornalismo di guerra è soprattutto lavoro di cooperazione, per cercare di avere un quadro della situazione il più possibile corrispondente alla realtà”.

Emanuele Granelli