Il 25 aprile ci ricorda che è ora di fare i conti con il passato. Commemorare la Liberazione significa anche comprendere le scelte e le condizioni dei ventenni di 76 anni fa. È la missione che Luciano Boccalatte, direttore dell’Istituto piemontese per la storia della resistenza e della società contemporanea, affida ai ventenni di oggi.
Riavvolgere il nastro della storia per guardarla con coscienza critica e senza le lenti delle ideologie novecentesche perché “dai giovani di 76 anni fa – dice – sono nati i germi di quella che sarebbe stata l’Italia futura e anche l’Europa futura”.
Luciano Boccalatte, cosa rappresenta oggi il 25 aprile e come celebrare la Liberazione?
Il 25 aprile è una data che segna uno spartiacque per la storia del ‘900, ma che a distanza di 76 anni continua ad avere aspetti controversi. Ormai sono trascorse tre generazioni da quegli avvenimenti e oggi sarebbe necessario passare dalla memoria alla storia. Abbiamo un bisogno disperato di conoscenza storica. Negli ultimi anni, invece, è venuta meno la conoscenza del ‘900 se non attraverso semplificazioni e un uso politico degli avvenimenti.
E allora come recuperare questa conoscenza storica? Quanto la semplificazione degli eventi a cui faceva riferimento è stata lesiva per la memoria?
Bisogna ritornare al metodo storico e la scuola ha un ruolo importantissimo. Uno degli aspetti su cui la scuola dovrebbe puntare è porre al centro la storia del ‘900. Oggi, purtroppo, i testimoni diretti di quell’epoca non ci sono più. Proprio per questo bisogna tornare a studiare la storia del ‘900 e i suoi nodi, le cui conseguenze permangono ancora oggi. Bisogna ritornare a vedere quegli avvenimenti togliendosi gli occhiali delle ideologie novecentesche. Guardare il passato attraverso quelle ideologie non è più possibile ed è fondamentale ricordarlo in queste occasioni. Ecco perché è centrale il ruolo della scuola, dell’Università e dei mezzi di comunicazione, affinché si cessi di continuare con un uso politico della storia. È importante, allora, che anche le forze politiche assumano questo compito, perché è l’unico modo di costruire e ricostruire la nostra storia comune.
Lei parla di scuola. Come crede che si rapportino, invece, i giovani adulti, ventenni e universitari, alla memoria storica e ai fatti del ‘900?
Si tratta di una generazione che ha l’età dei ventenni di 76 anni fa. Giovani che, in qualche modo, sono stati costretti a scegliere. Il non banalizzare quegli avvenimenti vuol dire anche capire quella generazione di ventenni che ha visto la propria giovinezza bruciata dalla guerra. E allora rendersi conto di quelle condizioni è una delle strade per far nascere un interesse storico e per capire da dove siamo partiti. Io non sono stato tra i ventenni di quegli anni, sono nato poco dopo, ma i miei occhi di bambino ricordano le immagini delle macerie nella città di Torino perché la ricostruzione non è stata immediata.
Quali sono le prime che le vengono in mente?
Ero piccolissimo, avevo appena quattro anni. Ricordo che proprio difronte a casa mia c’era un edificio bombardato. Le prime immagini che ricordo sono quelle delle macerie lasciate dalla guerra. Quando ero bambino esisteva ancora il razionamento: si comprava il cibo con tessera. Da quei giovani che avevano vent’anni e che si trovarono a contatto con scelte difficili, con la morte e con la fame è nata la forza che ha poi consentito il riscatto e la ricostruzione di un paese distrutto dalla guerra. Lì ci sono i germi di quella che sarebbe stata l’Italia futura e anche dell’Europa futura.
L’Italia futura dell’epoca è l’Italia di oggi. Come crede siano cambiati i ventenni?
La mia generazione ha avuto percorsi di impegno sociale molto diversi da quelli di oggi. Quando io avevo 20 anni le ideologie novecentesche erano tutte in piedi. Ho molta fiducia nei ventenni di oggi. Credo abbiano molte potenzialità di costruire una società futura con elementi che erano già nelle aspettative di quei giovani di 76 anni fa, cioè di una società che coniughi la libertà alla giustizia. Certo, hanno bisogno di essere condotti e di avere gli strumenti di conoscenza necessaria, ma vedo che i giovani in questo sono ricettivi. Ho molta fiducia in loro, questo mi dà qualche speranza per il futuro.
La percezione è che oggi si faccia fatica a ricordare anche rispetto ai momenti più tragici dell’ultimo anno.
Bisogna che quegli avvenimenti, quel nodo cruciale della realtà del ‘900 venga ripreso. È l’ora di fare i conti, cosa che non abbiamo mai fatto fino in fondo, con il fascismo. Bisogna chiederci quanto ci siamo autoassolti. E, anche in questo caso, bisogna togliersi gli occhiali delle ideologie novecentesche. Infondo, bisogna riconoscere che il fascismo è un fenomeno che nasce in Italia dopo la prima guerra mondiale.
Se c’è un messaggio che dobbiamo lanciare il 25 aprile, oltre a ricordare il sacrificio di chi ha fatto quelle scelte difficili, è tornare a considerare la resistenza come un mosaico perché è una resistenza che coinvolge strati sociali, condizioni culturali e ideologie diverse e contraddittorie tra loro, ma che si ritrovano. Questo mosaico ci riporta alla nostra coscienza collettiva che deve essere ricostruita perché si sta perdendo in una serie di individualismi e di particolarismi. E questo è l’elemento che mi preoccupa di più.